sabato 23 ottobre 2010

La favola di Hon- gu e Nor-bu


La favola di Hon- gu e Nor-bu

A Silvia (Chan-pa) a Claudia (Sat-tva)

Hon- gu incontra un’ombra

Fu un giorno che Hon-gu camminava solo solo per ritornare a casa. Un giorno che era un piccolo puntino sotto quel cielo di Korea, di un blu profondo e terso che raggiunge il suo apice al maturar dell’ autunno: un color indaco ( tchok, come lo chiamano i Koreani ) che basta vederlo e fa aprire il cuore di gioia e gli occhi illuminare di una profondità senza limite.

La viottola di campagna sembrava condurlo verso i pressi del ponte di Ch'ônggyech'ôn che attraversa tutt’oggi un ben noto fiumiciattolo dall’acqua sonora, e porta il suo stesso nome.

Alla vista del ponte gli venne in mente (chissà perché?) il ricordo di un’antica usanza di cui aveva sentito parlare da suo padre. Durante il periodo Chosôn i Koreani di allora, si dice, avevano la non comune usanza di punire chiunque infrangesse la legge facendolo bollire in un pentolone d’acqua.

Tipo di punizione questo che veniva eseguito, a quei giorni, su uno di quegli stessi ponti che cavalcano ancora il Ch'ônggyech'ôn.

Secondo la leggenda a metà del ponte si costruiva un alto focolare, e un calderone grande abbastanza da contenere una persona era posto su una catasta di legna. Il colpevole, strettamente legato con funi, lo si ficcava poi nel calderone. Si chiudeva il coperchio e si accendeva il fuoco.

“Certo” pensò Hon-gu “la crudeltà degli esseri umani è davvero senza limiti. Da tutt’e due le parti: di chi ha torto e di chi ha ragione. Avere ragione non significa agire del pari, o anche peggio, di chi ha commesso il torto. Altrimenti si entra in una catena senza fine…”

Se ne stava dunque immerso in pensieri simili il buon Hon-gu, quand’ecco che vide innanzi a sé un’ombra. Guardò meglio: era l’ombra di uno shramana.

Eppure gli ricordava qualcuno… ma sì, suo padre! Il vecchio Hon-gu-pa!.

Stava quasi per mormorare “Padre!”ma l’ombra svanì di colpo.

Hon-gu mosse ancora dei passi. Ed ecco che l’ombra si rimaterializza più in là alla fine del ponte. L’ombra apre il palmo della mano. Gli mostra dei semi. Poi con il bastone scava un piccolo buco per terra e vi getta dentro i semi. Con il piede destro ricopre la piccola buca. Ci sputa sopra. Si volge infine a Hon-gu e gli sorride benevolo.

E’ proprio lui, il vecchio Hon-gu-pa!

Il vecchio padre apre le braccia per accogliere il figlio. Ride. Ma dai suoi occhi calano grossi lacrimoni. Hon-gu, intenerito, corre incontro al vecchio per abbracciarlo e appena gli sembra di averlo fatto, non stringe che aria. Aria, nient’altro che aria!

Ora l’ombra non v’è più.

Hon-gu è disorientato e irrequieto. Ha davvero un brutto presentimento.

Corre allora verso casa con il cuore in gola. E quando ci arriva, il sangue gli si ghiaccia.

Chan-pa.

La prima volta lo scoprì per caso. E fu per lui una grossa e inaspettata sorpresa.

Era sdraiato per terra. Fra l’erba alta di un alto prato di montagna. Era tutto calmo. Fresco. Appena una leggera brezza. E sopra di lui l’immenso e sterminato blu del cielo koreano. Un cielo altissimo. Impenetrabile. Irraggiungibile. Immisto.

D’un tratto cominciò a ronzargli d’intorno un’ape.

L’ape lo infastidiva. E così il piccolo Chan-pa cercò di scacciarla.

Ma l’ape ritornò all’improvviso e all’improvviso gli si parò dinnanzi.

Gli occhi dell’ape e di Chan-pa si incrociarono.

Fu un attimo. Per un attimo Chan-pa scoprì quel fenomeno incredibile.

Sentì l’anima sua trasmigrare in quella dell’ape. E lui fu l’ape e l’ape fu lui.

Si sentì volar via e librarsi in alto. Su giù, di qua e di là, in un volo disordinato e caotico e cieco dapprima.

Poi da lassù si vide: Chan-pa. Lì sdraiato in terra, come morto.

Si posò sul corpo stecchito. Ma non provò dispiacere: “E’ bellissimo!”, urlò pazzo di gioia. E volò via, ebbro, verso quel nuovo mondo. Volò in lungo e in largo fin quando, come per una sorta di coscienza profonda del corpo che ci guida, fu sopra il ponte sotto il quale viveva la sua famiglia.

Vide Hon-gu, suo padre, ritornare a casa. Vide sua madre e suo fratellino Sat-tva aspettare felici quell’uomo: ecco ora Sat-tva correre incontro al padre, a braccia aperte; a braccia aperte il padre lo prende e se lo porta al petto.

Com’era bello da lassù osservare la sua piccola, cara famiglia!

E pover’ uomo suo padre! Dopo la morte del nonno il fratello, il cattivo Nor-bu, e quella megera di sua moglie si erano presi la casa, tutti i soldi e cacciato, a suon di randellate, Hon-gu e la famiglia.

Ora vivevano sotto un ponte. La mamma e il babbo facevano dei lavoretti per sopravvivere: pulivano le case, svuotavano i fossi dai liquami. Vivevano come passeri sull’albero. E quando non avevano lavoro, c’era sempre la mano di Dio che li aiutava

Non riusciva più a staccarsi da quella scena. E volò a così lungo intorno a loro, che neppure provarono scacciarla quella fastidiosa ape tanto amavano gli animali.

A un certo punto si accorse che era quasi buio, perché vide i suoi genitori in ansia aspettarlo, scrutando l’orizzonte. Era l’ora della preghiera. Se Chan-pa fosse mancato sua madre si sarebbe arrabbiata.

Così via di corsa verso il prato da dov’era venuto.

E lì si ritrovo. Secco come uno stoccafisso.

Di nuovo puntò gli occhi su quel cadaverico se stesso, e…zack! Chan-pa ritornò il roseo e paffutello Chan-pa di sempre e l’ape fu di nuovo ape, libera di volar via.

I tre animali

Venne l’inverno.Venne il freddo. Nessuno aveva più bisogno dei lavoretti di Hon-gu.

Venne la fame e il buio delle lunghe giornate d’inverno.

Hon-gu passava i suoi giorni nel bosco a cercare bacche e radici per sé e la sua famiglia.

Ma anche quelle scarseggiavano ogni giorno di più.

I figli piangevano per la fame. La moglie piangeva per la disperazione. Nel bosco nulla di nulla. Era sempre più freddo. Era sempre più buio.

E cadde di nuovo la neve.

Così Hon-gu spinto dalla disperazione capitò a gironzolare davanti alla casa del fratello, il cattivo Nor-bu.

Bussò alla porta. La porta era aperta e poiché nessuno veniva ad aprire, Hon-gu entrò.

Dentro c’era un bel calduccio. Da ogni angolo della casa emanava un senso di opulenza, di una vita grassa, calda e senza problemi. Del domani sicuro e sempre uguale a se stesso.

Si ricordò di quando era un bambino. Del vecchio padre e della madre, la severa I-da-nin: mai un sorriso, mai una carezza.

Giunto davanti alla cucina, sentì il borbottio di un enorme paiolo colmo di riso e verdure cuocere sopra un crepitante fuoco. La porta della cucina era semichiusa, così accostò l’occhio e vi scorse la moglie del fratello. Girava un grande mestolo nel paiolo come una fattucchiera che preparasse una pozione magica.

D’istinto la megera si voltò e lo inquadrò con i suoi occhiacci di coccio.

“Che vuoi tu, buonannulla! Come ti permetti di entrare in una casa rispettabile! Tu! Pezzente, ladro e vagabondo!”

Hon-gu sentì il suo cuore diventargli piccolo al pari di una noce di nocciola.

“Pietà! Un po’ di riso se non per me, almeno per i miei figli. Ti prego!”

La megera non fece discorsi. Gli sferrò violenta una paiolata, colpendo Hon-gu diritto sulla bocca, che gli sanguinò.

Hon-gu sentì il sangue caldo colargli misto al riso e alle verdure che vi erano rimaste appiccicate a seguito della paiolata.

Come un animale cominciò a leccarsi la bocca con la lingua. Come una bestia, spinta dai morsi infesti della fame, si aiutò con le mani.

La fame crudele donava sempre più la sua immagine ai figli, che deperivano a vista d’occhio.

Quei volti scavati, ossuti, smagriti e sparuti gli imposero ancora una volta di ritornare nel bosco.

Il bosco in quel tempo era un capolavoro di bianco. Una coltre spessa di neve lo copriva. E il rumore dei suoi passi suonava morbido, leggero e tuttavia spaesante.Tutto era bianco, come l’ingenuità del cuore dei suoi figli i cui occhi divenuti troppo grandi l’avevano fin lì spinto.

Con le mani gelate principiò a scavare nella candida, soffice neve. Sperava di trovare delle radici di ginsen o di tôdôk, tutt’e due ottimi come ricostituenti. Avrebbero almeno lenito i morsi acuti della fame e dato ai suoi figli la forza di andare avanti ancora un po’.

Cambiò più volte posto. Ma i risultati furono sempre gli stessi: niente!

Lentamente si fece buio. Quel buio invernale che fa paura ai poveri. E nella morsa d’inquietudine che lo attanagliava sempre all’arrivo della sera riprese la strada di casa, quando, silenzioso e improvviso si vide avanzare contro un orso bruno. Enorme. Grosso e grasso come una montagna.

Hon-gu pensò: “E’ giunta la mia ora!” e raccomandò la sua anima a Dio. Ma l’orso invece gli si avvicinò tranquillo. Lo guardò come cosa strana dritto negli occhi. Sembrò quasi sorridergli. Poi emise un urlo spaventoso. E corse via.

Hon-gu rimase lì, tramortito.
La prima idea fu che forse sarebbe dovuto fuggire. Ma una voce dentro gli gridò: “No!”. Un “No!” secco e imperioso che non ammetteva repliche. Così indugiò ancora, senza un motivo. Confuso. Ma ubbidiente all’imperativo.

Passarono sì e no quindici minuti. Ed ecco di nuovo l’orso, tutto bagnato e luccicante.

Si avvicina. E con la bocca gli deposita ai suoi piedi tre enormi salmoni.

Struscia un poco la testa ai ginocchi di Hon-gu e se ne va.

Gli occhi di Hon-gu erano spalancati come quelli di uno che avesse visto un fantasma.

Quella sera Hon-gu e la famiglia mangiarono come da tempo non era più. E ne ebbero per quasi tutta la settimana.

Passò una settimana appunto. Ma niente dura a questo mondo e allora dové di nuovo riprendere la strada del bosco.

Questa volta la neve era scomparsa e rimasta solo qualche chiazza qua e là.

Hon-gu, debole per la fame e stranulato per il freddo, cominciò ad aggirarsi fra le piante scavando, al solito, in cerca di radici.

Le mani gli diventarono rosse per il freddo e gli dolsero fin quasi a sanguinare.

Dovette fermarsi. Gli erano divenute così gonfie!

Cercò di riscaldarle ficcandosele sotto le vesti. Si rannicchiò sulle ginocchia per farsi calore. Si sentiva perduto e due grosse calde e copiose lacrime presero a scendergli lente, mentre la vista gli si annebbiava.

Chiuse gli occhi.

Passò un tempo che gli parve indefinito.

Poi gli sembrò qualcosa di umido e di appiccicaticcio sul suo volto come leccarlo. Ma caldo! Di un calore vivo come la sua fame.

Si riebbe.

Aprì gli occhi: l’enorme lingua di un lupo stava leccandogli la faccia.

Balzò in piedi terrorizzato e gli si rizzarono tutti i capelli per la paura.

Ma il lupo rimase là. Bonaccione con la lingua penzoloni e con la bava che colava, fumante, dagli angoli della bocca. Aspettando.

Per un attimo i due si guardarono. Poi il lupo calmo calmo trotterellò via.

Hon-gu fu sgomento. Si guardò le mani. Gli si erano, forse per la paura, un po’ sgonfiate e il sangue aveva ripreso a scorrere.

Attaccò a scavare di nuovo. Passò più o meno un’oretta e Hon-gu, raccolta qualche misera radice di tôdôk, si era ormai rimesso sulla strada di casa con la morte nel cuore. Quand’ecco, a un tratto, sente un fruscìo dietro di sé. Si volta. E toh! chi vede? Il lupo, che strascica, tirandolo per la gola, un grosso cervo. Il lupo lascia la preda alla punta dei piedi di Hon-gu. Strofina la testa ai suoi piedi e sparisce.

Hon-gu si gettò allora in ginocchio e piangendo come un bimbo ringraziò Dio, premendo con violenza la testa contro il suolo ghiacciato.

L’inverno sembrava non finire mai e la fame aumentare sempre.

Il cervo non durò a lungo. E così Hon-gu quale altra scelta poteva avere se non ancora una volta la strada del bosco?

Ma a causa della stagione il bosco era come morto. Oltre al freddo si era aggiunta ora una lunga siccità. E tutto era come privo di vita. Da tempo infatti non pioveva e la neve quell’anno era stata poca e scarsa.

Preso dalla disperazione nel vedere una desolazione simile Hon-gu fu preso anche dallo sconforto e si sentì impossessare da un freddo terribile.

Così si fermò al centro di una radura. Raccolse della legna e si accese un bel fuoco per riscaldarsi.

Mentre se ne stava fermo immerso nei suoi funesti pensieri, gli si avvicinò un grosso coniglio bianco.

Bello. Rotondo come un maialino d’india.

Hon-gu guardò il coniglio-maialino. Il coniglio-maialino guardò Hon-gu

Silenzio.

La prima e istintiva sensazione di Hon-gu fu di prendere un bastone e ucciderlo.

Ma poi pensò che in fondo anche quel coniglio era un essere vivente, e non era giusto ammazzarlo.

Il coniglio continuò a fissare Hon-gu come se ne potesse carpire i pensieri più intimi e segreti. Poi si voltò indietro, e percorse, ballonzolando il culone grasso, alcuni metri. Si fermò. Si rigirò e sembrò fissare un punto. Rimase lì, per alcuni minuti. Poi partì di gran carriera e si gettò nel fuoco.

Si immolò. Lasciandosi bruciare e cuocere come la migliore delle offerte per il migliore degli dèi.

Senza neanche il minimo grido di dolore gli si era offerto come cibo per lui e la sua famiglia.

Hon-gu ebbe gli occhi sbarrati. Un nodo gli serrò la gola. Non una parola non un pensiero.

Fu poi il nulla.

Cadde riverso per terra e svenne.

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La sera a tavola Sat-tva Gli domandò “Perché onorevole padre Hon-gu il coniglio si è offerto a noi?”

Hon-gu tacque alcuni minuti. Tutta la famigliola pendeva dalle sue labbra.

“Un amore universale credo lo possa aver spinto fino ad offrirsi. Ha provato lo stesso sentimento di sofferenza che io provavo. Per questo ci ha amato. La sofferenza rende uguali tutte le creature: la sofferenza ci può salvare. La sofferenza ci fa riconoscere l’altro uguale a noi. La sofferenza ci prepara ad un futuro migliore. Ci mostra la strada per la salvezza. Chi sacrifica se stesso per amore di un altro salva se stesso.”

L’ossessione di Chan-pa

Dopo la storia del coniglio, Chan-pa, il piccolo Chan-pa, cominciò ad essere ossessionato da un’idea: la morte!

“Perché” si chiedeva Chan-pa “quel coniglio si è ucciso? Un momento prima era vivo. Poi, inspiegabilmente, si è gettato nel fuoco ed è morto. Perché si nasce e si muore?”

Suo padre gli aveva detto che quando si muore chi ha fatto il bene in questo mondo avrà il bene nell’altro, chi ha fatto il male in questo patirà nell’altro.

“Ma tutti moriamo!” si ripeteva sempre Chan-pa “Buoni e cattivi. Egualmente moriamo. Cosa vuol dire morire?”

Un giorno si trovava di nuovo per i prati della montagna, e guardando l’intenso blu del cielo, sentì il cuore aprirglisi, e la possente domanda rimbombare nel suo cuore “Che vuol dire morire?”

Si guardò intorno e vide uccelli. Si guardò intorno e vide insetti. Si guardò intorno e vide serpenti. Si guardò intorno e vide alberi e piante…

“Tutto muore non solo gli uomini! Devo entrare nel suo cuore!” pensò all’improvviso Chan-pa “Nel cuore del mondo. E così potrò capire che vuol dire morire!”

Puntò gli occhi suoi folgoranti su un grosso uccello che stava appollaiato su di un ramo e fu quell’uccello. E volò via, incontro alla morte.

Volò verso un gruppo di cacciatori esperti che si stavano approssimando. Gli volò intorno per attirarne l’attenzione.

Alla fine uno di questi infastidito incoccò la freccia all’arco e con un colpo perfetto lo passò da parte a parte.

Fu come un tonfo. Fu un grande caldo. Sentì come una luce spegnersi dapprima piano piano, poi rapidamente.

Rivide in un lampo tutta la vita dell’uccello. Come in un lampo che abbracciava la sua vita tutta, dalla nascita fino a quel momento.

Poi tornò un lungo buio profondo. Il silenzio angosciante. Il Nulla.

Poi, ci fu quasi… un puntino bianco… che andava crescendo… come una piccolissima luce… farsi incontro…

D’improvviso si risvegliò sotto il ramo, e vide l’uccello morto trafitto dalla freccia davanti ai suoi piedi.

“Credo di aver capito, che vuol dire morire!”, pensò subitaneo.

Ma qualcosa tuttavia lo rendeva insoddisfatto, lo tirava da un’altra parte.

Si rimise in cammino e rimuginava.

Ripensò all’uccello morto ai suoi piedi. E allora fu un’illuminazione.

Per entrare nel cuore del mondo, aveva strappato il cuore a uno dei figli del mondo.

Non aveva avuto nessun rispetto per quel povero animale. Per la sete del suo sapere, aveva sacrificato un figlio di questo mondo, quando un figlio di questo mondo (il coniglio) si era offerto per amore in sacrificio alla sua famiglia.

Se l’avesse detto a suo padre, il buon Hon-gu si sarebbe di certo arrabbiato.

Era una colpa che l’avrebbe accompagnato per tutta la vita. Era una colpa che avrebbe dovuto espiare, un giorno.

L’arrivo della primavera

E venne finalmente la primavera. Cominciarono a fiorire gli alberi e l’aria fu mite. Finì il lungo buio dell’inverno. La nuova luce si portò via le vecchie angosce.

Hon-gu e la moglie ricominciarono i loro lavoretti e così la famigliola poté vivere meglio.

Sotto il ponte anche si viveva meglio.

Chan–pa e Sat-tva passavano i loro pomeriggi a pescare. Così alla sera c’era da mangiare un po’ di pesce.

Una volta che Sat-tva prese un pesce domandò a Chan-pa : “Ho preso un pesce Onorevole fratello. L’ho preso perché io sono stato più furbo di lui. Che pensi, è giusto che io me lo mangi?”

“Tu non hai preso il pesce. E’ il pesce che si è fatto prendere da te, perché tu possa mangiare.”
”Il pesce si è fatto prendere da me? Ma che dici Onorevole fratello?”

“Tutto in questo mondo è collegato: ogni cosa dipende da un’altra. Nulla succede per caso. Anche le cose più apparentemente inutili, sono importantissime in questa catena di dipendenza, di vita e di morte.

Prendi una zanzara ad esempio…”

“Una zanzara?”

“Sì, una zanzara. Che c’è di più fastidioso di una zanzara per gli uomini. Si nutrono del sangue degli uomini. Trasmettono molte malattie agli uomini. E qualche volta ne provocano anche la morte. Ma se non ci fossero migliaia di zanzare di che si ciberebbero migliaia di pipistrelli e di rane? Nessun essere in questo mondo potrebbe esistere senza dipendere dagli altri. Se nessuno mangiasse i pesci in questo mondo, i pesci sarebbero i veri padroni. Se gli uomini non morissero, non ci sarebbe più spazio per quelli che devono nascere…Ogni causa ha un effetto e ogni effetto una causa…”

Ma per Sat-tva questi erano discorsi forse troppo difficili. Già aveva lasciato la canna e ributtato il pesce in acqua per correre dietro a una bella farfalla variopinta.

L’arrivo delle rondini

A primavera arrivarono le rondini. E nidificarono sotto il ponte.

Sat-tva le osservava tutti i giorni a testa in su.

“Chissà quanto mondo hanno visto le rondini? Quanti paesi hanno girato?”

Chan-pa lo ascoltò in silenzio. Si domandava se fosse possibile per lui conoscere i segreti che portavano con sé le rondini.

Così passò molto tempo a fissare le rondini che svolazzavano sotto il ponte. Ne individuò una che gli parve un po’ più grossa delle altre ma dava anche l’impressione di essere piuttosto giovane: era perfetta per lui.

Una mattina che era rimasto solo a pescare, si nascose dietro una siepe e cominciò a fissare le rondini. Finalmente la riconobbe. Gli ci volle del tempo prima che potesse guardarla negli occhi perché, si sa, il volo delle rondini è quanto di meno lineare ci possa essere per via dei loro lunghi volteggi, picchiate e impennate. Ma alla fine ci riuscì. E zac! fu la rondine.

Si ritrovò a librar nell’aria, planando lungo l’acqua del fiume con il becco aperto per bere.

In breve si trovò circondato da altre compagne.

E d’improvviso fu in grado di capire i loro pensieri.

Seguici sta ormai per cominciare l’assemblea!

Chan-pa le seguì.

Si ritrovarono tutte sul cornicione di un vecchio tempio buddista in rovina.

Le rondini si erano lì radunate per commemorare Osanje. Una di loro.

Non capiva come, ma tutto era chiaro. I pensieri fluivano tutti insieme e uno ad uno allo stesso tempo. Così poteva intendere i singoli pensieri di una singola rondine e allo stesso tempo i pensieri di tutte le altre.

Comparve Oruruka il capo stormo. Tutti i pensieri si dileguarono.

Solo il suo dominava nel vuoto degli altri.

Era un vuoto strano quello che si generava nella loro mente: pur pensando non pensavano mentre Oruruka pensando rifletteva su di loro il suo pensiero.

Erano lì per commemorare Osanje. Non ce l’aveva più fatta nella traversata dell’oceano. Ed era caduta giù spossata dalla fatica. Aveva predetto la sua fine: che sarebbe morta a ottobre durante la traversata. L’aveva predetta cinque anni prima. Come aveva predetto molte altre cose.

Una volta durante una torrida giornata di sole d’improvviso radunò il branco e l’avvisò che stava per arrivare un terribile uragano che non avrebbe risparmiato neanche una casa del villaggio.

Di solito le rondini si tengono ben lontane dagli uomini. Ma quella volta erano nel villaggio di Cumba, nelle terre del Djeri in Senegal. E lì gli uomini amano le rondini. Le considerano portatrici del bene. Dileguatrici delle tenebre.

Così piombarono a volo radente sul villaggio più e più volte, come impazzite, fuggendo verso la montagna. Gli uomini all’inizio erano disorientati. Ma poi Bacchègga il mago, ammonì gli altri a seguire le rondini perché un pericolo imminente sarebbe di sicuro arrivato.

E così fu. Le case vennero rase al suolo dalla furia dell’uragano. Neanche una capanna rimase.

Ma da quel giorno le rondini diventarono sacre. E la terra del Djeri fu il paradiso delle rondini. Lì da tutto il mondo le rondini convenivano per svernare. Lì erano rispettate e amate.

Oruruka muoveva il collo e scaturiva un altro pensiero riflettente.

Per commemorare Osanje, che aveva cambiato il rapporto con gli uomini, da quel giorno un uomo buono sarebbe stato scelto prima di partire per le terre del Djeri, a settembre. A primavera avrebbero a lui portato i semi magici del bene che crescono solo nelle terre del Djeri.

Anche un uomo cattivo sarebbe stato scelto. A lui avrebbero portato i semi del male che crescono sulle rive del lago di Kael, dove vivono i draghi feroci che uccidono tutto ciò che si avvicini a quelle acque.

Oruruka mosse il becco e un altro pensiero di luce riflessa schizzò.

Ognuna di voi segnali l’uomo più buono e quello più cattivo. Andate e cercate. Avete tre mesi.

Di colpo risentì tutti gli altri pensieri di tutte le altre rondini. E tutte volarono nelle più svariate direzioni.

C’è qualcosa di più importante dell’Amore,

a parte la morte e il dolore?

Un giorno Sat-tva se ne stava a pescare da solo sotto il ponte dove abitavano. All’improvviso cadde giù dal cornicione del ponte un rondinotto. Sicuramente da uno dei tanti nidi che erano attaccati sotto l’arco del ponte.

Il rondinotto si muoveva come scosso da una scarica elettrica. Poi si fermava come morto. Poi riprendeva ad agitarsi scalciando e sbattendo le ali.

Sat-tva si avvicinò un po’ timoroso. Senza il coraggio di prenderlo fra le mani. Si mise a osservarlo.

Capì che il rondinotto doveva soffrire molto. Allora gridò: “Onorevole padre Hon-gu! Onorevole padre Hon-gu!”

Hon-gu comparve fuori della casetta di legno in cui vivevano.

“Che succede Sat-tva?”

“Onorevole padre c’è qui per terra un rondinotto, non so se è morto.”

Hon-gu si avvicinò e osservò il rondinotto, prendendolo delicatamente tra le mani.

“Ha una zampa rotta. Dev’essere caduto da lassù. Probabilmente non sa ancora volare, è troppo giovane. E’ un bel problema!”

Hon-gu portò il rondinotto in casa. Sat-tva gli trotterellò dietro.

Hon-gu con tanta pazienza preparò delle sottili striscioline di legno. Poi cercò di raddrizzare la zampa del rondinotto. Con altrettanta pazienza gli legò intorno, con del filo per cucire, gli steccolini.

Sat-tva con gli occhioni aperti seguiva ogni operazione, senza parlare e batter ciglio.

Alla fine Hon-gu disse: “Ecco fatto. Ora dobbiamo dargli qualcosa da mangiare. Questa è la parte più difficile. Il rondinotto è troppo giovane ha ancora bisogno della mamma.”

Hon-gu prese del latte e con uno stecchino, cercò di fargli ingurgitare delle gocce di latte.

L’operazione fu difficile e il rondinotto non deglutì quasi che niente.

“Vivrà Onorevole padre?” chiese Sat-tva.

“Chissà?” rispose Hon-gu “Gli uccellini, in particolar modo i rondinotti, sono difficili da allevare. Se non hanno la madre raramente sopravvivono. Questo per di più ha anche una gamba rotta. Rimettiamoci nelle mani del buon Dio e facciamo quello che possiamo.”

In quel mentre entrarono la madre Gim-pa-ma-san e Chan-pa.

Sat-tva le corse incontro a saltelloni per finire tra le braccia della mamma..

“Guardate Onorevole madre e Onorevole fratello abbiamo trovato un rondinotto. E’ caduto dal nido e ha una gamba rotta. Il nostro Onorevole padre gliel’ha fasciata, e gli abbiamo dato del latte. Ma il nostro Onorevole padre dice che morirà”

“Pregheremo il Signore perché ciò non accada” disse la madre.

Chan-pa si avvicinò e osservò a lungo il rondinotto. Non parlò. Non disse una parola.

Lui solo sapeva che una strana sensazione l’aveva preso.

Il seme oscuro e indecifrabile del destino affondò allora le sue minuscole e inalterabili radici.

La visione della Luce

La notte avvolgeva di un silenzio indefinibile tutte le cose. Si poteva udire solo il leggero fluire del fiume e un quasi impercettibile sciacquio dell’acqua che lambiva l’argine del Ch'ônggyech'ôn .

La luna argentea si posava leggera sopra il ponte e rifletteva la sua nitida immagine un po’ sporca di increspature nel fiume.

Tutto dormiva nella piccola casetta di legno.

Chan-pa fu l’unico che udì quel lamento.

Il rondinotto era morente e Chan-pa fu l’unico a udire quel lamento di morte.

Tutti gli altri dormivano profondamente.

Intorno c’era come una nebbia caliginosa che avvolgeva le cose, rendendole insonore e irreali. Sfigurandole. In quel torpore, simile a un mondo incantato, si avvicinò al rondinotto che giaceva in una scatola di cartone, adagiato su dell’erba secca. Si chinò su di lui e allungando il braccio sinistro sul tavolo posò l’orecchio sinistro sul minuscolo petto cercando di ascoltare l’impercettibile cuoricino.

Rimase così forse un paio di minuti. Poi sentì piano piano il suo spirito entrare in lui. Fin nei più remoti recessi.

Fu un lunghissimo silenzio. Fu un buio completo e totale. Un buio che pian piano si punteggiò di piccole microbiche figurette. Come piccolissime formiche bianche.

Lo spirito di Chan-pa si ritrovò avvolto, mescolato, fuso a quelle stesse particelle. A quegli stessi spermatozoi vischiosi.

Lentamente fu un universo di quelle piccolissime particole. Infinito. Dove l’una si legava all’altra. Gli sembrava di essere in balìa di un immenso oceano. Rotolava di qua e di là senza posa. Ma aveva la sensazione di essere sospinto verso un punto.

Chan-pa si riscosse. Lottò violentemente contro quella corrente bianca, lattea. Con uno sforzo immane riuscì a trarsi da una parte, al di là del flusso ininterrotto.

Ebbe proprio la sensazione di essere salito su di uno scoglio altissimo, da cui poteva dominare l’universo.

Lontano notò una palla di luce. Di un bianco folgorante. Impossibile da sostenere con lo sguardo.

E vide che il flusso bianco confluiva tutto verso quel punto nel momento stesso che ne defluiva nel senso opposto a quello affluente.

Fu di nuovo penetrato da quel non-pensiero riflettente che pur non pensando riflette.

Tu sei tutto quello, che quando è giunto il momento opportuno rapisce tutti questi mondi. Il mobile e l’immobile. Che quando è giunto il momento opportuno restituisce tutti questi mondi. Il mobile e l’immobile.

Tu sei tutto quello, dove ciò che è andato poi ritorna.

Tu sei tutto quello, le cui radici si estendono in alto e in basso ma in realtà non vi ha un alto e non vi ha un basso.

Va’ e ritorna, ciò che è in te sarà nel tutto. Riporta indietro il tuo spirito.

Tu, caduto nel fuoco della rinascita come gli insetti che con frenetici voli sprofondano in un falò notturno.

Tu, gettato in questo oceano come le correnti dei fiumi che sfociano nel mare immenso.

Tu, lambito e divorato da questa luce che, come i raggi del sole, lambisce e divora il mondo.

Prendi una sola scintilla di questa Luce e sarà nuova vita


Il brutto risveglio di Hon-gu

Hon-gu fu risvegliato da uno strepitìo di ali. Uno sbattìo di ali che lo riscosse all’improvviso.

Aprì gli occhi con grande fatica. A malapena riusciva a intravedere qualcosa. Aveva perso la cognizione del tempo. La testa gli era pesantissima. Quasi gli scoppiava. Come quando si è bevuto tanto. Come se una bevanda narcotica lo avesse sottratto alla vita per ore e ore. Come un carro gli fosse passato sopra, più e più volte.

A stento roteò gli occhi. Un sottile filo di luce penetrava dalle finestrelle della capanna. L’ambiente era scuro. Pesante. L’aria anche.

Ricordò di aver sognato male. Di aver visto nel sogno un giovane di rara bellezza, e dalle carni bianche, pregare davanti al tabernacolo del suo dio. Dietro di lui erano poi spuntati un nugolo di spiriti di morti invidiosi della sua devozione. L’avevano circondato per strappargli l’anima.

Lui era allora fuggito in un tempio. Lì, disteso per terra, c’era un altro giovane bellissimo come lui, dalle carni bianchissime anch’esso, morente. Si era chinato per ascoltargli il cuore poggiando l’orecchio sinistro sul suo petto. Aveva sentito un piccolissimo cuore che batteva debole. Allora aveva preso un coltello e, affondatolo nelle molli e bianche carni, si era reciso i polsi e aveva versato il sangue copioso sul volto dell’altro giovane.

Lentamente l’altro aveva aperto gli occhi e sorriso.

A malapena ricordava ancora quell’incubo.

La testa gli era di un grave estremo.

Si voltò a destra e vide il volto calmo e sereno di sua moglie vicino a lui. Poi a sinistra e scorse i piedini di Sat-tva spuntare da sotto le coltri.

Cercò di sollevare un poco la testa per vedere al di là del fagotto di coperte, dove Sat-tva era sepolto, la sagoma di Chan-pa.

Ma la testa gli fece così male che dové ributtarsi giù.

Lo sbattìo però era insostenibile. E con uno sforzo sovrumano si sollevò.

Guardò il lettino di Chan-pa.

Vuoto.

Fu un tuffo al cuore.

Si girò in direzione del rumore di ali e vide Chan-pa seduto con il braccio sinistro e la testa riversi sul tavolo vicino alla scatola del rondinotto.

La testa era finita proprio ad appoggiare l’orecchio sul rondinotto che sbatteva le ali per liberarsi del peso del capo di Chan-pa.

“Ma guarda un po’!” pensò Hon-gu “si è addormentato seduto, quel birbantello!”

Chusôk: la festa d’autunno

Chusôk letteralmente significa "sera d'autunno". Inizialmente era, come da noi il Ferragosto, la festa del raccolto. Una festività agricola che serviva per riposarsi dopo le fatiche della lunga mietitura. Ma mentre da noi oggi il Ferragosto è soprattutto andare in vacanza al mare o in montagna, in Korea ha ancora il valore di far visita alla propria famiglia di origine: ai genitori, ai nonni, ai parenti.

E’ la più grande festività Koreana. Il giorno della riunione delle grandi famiglie.

Una festa che è osservata ovunque, sia in città che in campagna.

Se vi invitassero a trascorrere il Chusôk presso una famiglia Koreana, dovreste dare una mano alla preparazione dei dolci di riso tradizionali, i cosiddetti songp'yôn, che vengono cotti a vapore su uno strato di aghi di pino. I songp'yôn sono dolcetti di riso che di solito hanno la forma di una mezzaluna. È un dolce che ricorda il sapore di casa e certamente i Koreani all'estero in questa occasione provano nostalgia per il loro paese al solo pensiero di queste delizie.

I songp'yôn vengono serviti alla fine di un pasto in cui compaiono piatti di carne e vegetali, come ad esempio il sanjôk (carne e vegetali su spiedini) o i vegetali fritti e conditi con olio di sesamo e sale, o ancora i kalbi chim, uno stufato di costolette di bue. E poi la zuppa di taro, molto nutriente

Oltre a questi cibi, non manca neppure la frutta appena raccolta: mele, pere e cachi.

Quando il pasto di Chusôk volge alla fine vengono serviti appunto i songp'yôn, che sono consumati accompagnandoli con una bevanda alcolica, il sikhye, ottenuta dal riso fermentato.

La sera prima la famiglia si riunisce per preparare i dolcetti di Chusôk.

E così aveva fatto tutta la famiglia di Hon-gu. Il giorno dopo sarebbero venuti, obtorto collo (ma la rigida tradizione Koreana non ammette eccezioni), pure Nor-bu e la megera di sua moglie.

La festa di Chusôk va celebrata appunto a casa dei genitori, o, in mancanza di loro, dal primogenito.

Nel caso di Hon-gu e Nor-bu la situazione era un po’anomala.

Infatti nella casa che sarebbe dovuta spettare al primogenito (Hon-gu) abitava il secondogenito (Nor-bu). Ma la tradizione dice di celebrare la festività a casa del primogenito e questi abitava sotto un ponte.

Così, con grande faccia tosta, il cattivo Nor-bu si sarebbe presentato a casa del fratello maggiore.

La sera prima Gim-pa-ma-san, la madre, aveva lavorato da sola e con grande alacrità e passione alla preparazione della cena.

Hon-gu e Sat-tva avevano dovuto aspettare fuori casa. Si dice infatti che i maschi non possano partecipare alla preparazione della cena e nemmeno osservarla. Pena la perdita della loro virilità.

Così Hon-gu e Sat-tva aspettarono fuori. E come un’altra tradizione impone, Hon-gu cominciò a raccontare a Sat-tva aneddoti sugli antenati, perché le nuove generazioni non dimentichino le passate. Raccontò a Sat-tva la storia di Hon-zu-cha della decima generazione, divenuto una specie di eroe popolare in Korea, che fin da bambino era cresciuto nell’odio contro gli invasori giapponesi. Già da piccolo si era messo in testa che un giorno ne avrebbe ucciso il governatore. E così fino dalla prima adolescenza si addestrò a lanciare coltelli. L’arma che lui preferiva. Silenziosa e invisibile. Che dà una morte rapida e leggera. Con quell’arma uccise molti funzionari e soldati giapponesi. Ma un giorno lo catturarono. Non lo imprigionarono, ma gli inflissero un’atroce punizione.

Con un pesante martello gli piantarono nella mano destra un grosso chiodo, e così lo lasciarono: con la mano destra attaccata ad una roccia, per un giorno e una notte, nell’impervio bosco di Uljin. Da quel giorno i tendini furono completamente lesionati e perse l’uso della mano.

Non domo, l’eroe, passò anni ed anni ad addestrarsi, in silenzio e con una meticolosità tutta Koreana, con la mano mancina. Alla fine divenne più bravo che con la destra.

C’è chi dice che la mancina sia guidata dal lato sinistro del cuore, dal male che in noi risiede. Nella puntigliosità, nella cocciutaggine, nella persistenza il bene può essere distorto verso il male. E certo Hon-zu-cha inseguendo la sua missione travalicò il limite del bene verso quello del male. Non c’era niente di buono in quella sua volontà di uccidere e nel rancore che provava verso chi lo opprimeva. E certamente c’è da sospettare che fosse il diavolo a guidare la sua mano quando finalmente riuscì ad uccidere il governatore giapponese.

La famiglia riunita commemora i propri morti per la notte di Chusôk

Dopo la morte di Chan-pa la famiglia era piombata in un cupo silenzio.

Se non ci fosse stata la fede in Dio la famiglia sicuramente non avrebbe retto il colpo.

Chan-pa se n’ era andato in silenzio. Quasi in punta di piedi. Quasi salutando e sorridendo, come se un destino migliore gli fosse venuto incontro.

Chan-pa era stato sepolto proprio davanti alla casetta di legno sotto il ponte. Davanti alla tomba si era coltivato un piccolo praticello verde, con un piccolo altarino su cui la notte di Chusôk avrebbero consumato la cena.

Il cattivo Nor-bu, con la vecchia megera che camminava dietro di lui, arrivò verso le dieci di sera.

“Buonasera Onorevole fratello e Onorevole cognata!” disse Hon-gu alla testa della sua famigliola, tutta schierata davanti agli ospiti in arrivo.

Nor-bu e la di lui pari moglie neppure si degnarono di rispondere. Ma direttamente presero posizione davanti al tavolo apprestato e bell’apparecchiato.

Gim-pa-ma-san passò con un bacile pieno d’acqua.

Uno ad uno, a partire da Hon-gu (fratello maggiore), si lavarono le mani.

Hon-gu collocò al centro del tavolo la tavoletta degli antenati, accese l’incenso e poi si prostrò fino a terra andando a toccare il pavimento con la fronte.

Si versò infine del vino in una coppa e poi si pose la coppa davanti alla tavoletta.

Si accomodarono quindi, tutti, per consumare le offerte.

Nessuno aveva mai parlato fino ad allora. Si era mangiato in silenzio.

Fu dunque alla fine della cena che Hon-gu prese la parola: “Onorevole fratello e Onorevole cognata, per la festa di Chusôk vorrei invitarVi ad abbandonare ogni rancore fra di noi. Dopo la morte di Chan-pa la nostra vita è divenuta tristissima. Proprio davanti alla tavoletta degli antenati, e in nome di nostro padre e del piccolo Chan-pa, vorrei invitarVi ad aprire i Vostri cuori e a riconsiderare il Vostro comportamento. Di restituirci almeno una piccola parte di quello che spetta a me e alla mia famiglia, perché io possa far fronte all’educazione del mio ultimo figlio, Sat-tva.”

Nor-bu e la moglie divennero paonazzi in viso.

Nor-bu stava per esplodere. Ma Hon-gu fece cenno che gli si permettesse ancora di parlare.

“La morte di nostro padre ha gettato la famiglia nel più grande chaos. Quella del mio piccolo Chan-pa ci avrebbe tolto ogni forza di vivere se non avessimo avuto la fede in Dio. Perciò fratello mettiamo da parte ogni rancore e secondo giustizia restituisci a noi non tutto ma una piccola parte almeno, di quello che ci spetta per una vita dignitosa e migliore. E Dio te ne sarà riconoscente.”

Nor-bu e la vecchia megera avevano gli occhi dei pazzi, e anche la digestione gli si doveva esser bloccata a giudicare dal color plumbeo delle loro facce. I loro occhi divennero cattivi e simili a quelli dei padroni giapponesi, che occupavano la loro terra da anni derubando e impoverendo i miti Koreani.

“Tu serpente a sonagli! Tu, mi costringi a venir qui! Solo perché è la festa di Chusôk. Tu maledetto escremento, razza di seme malato. Tu, e i tuoi pidocchiosi figli osate insultarmi così davanti alla tavoletta degli antenati...!”, Nor-bu aveva afferrato un lungo coltello dal tavolo e si avvicinava minacciosamente verso il fratello.

Sat-tva chiuse gli occhi e pregò il fratello Chan-pa.

D’un tratto e per incanto l’aria si profumò, e come neve cominciò a cadere giù dal cielo. Ma cadeva solo sull’altarino. E a poco a poco,in quel farfuglìo, si materializzarono tra la neve due figure bianche, quella del vecchio padre Hon-gu-pa, e poco più in là quella di Chan-pa.

Il vecchio Hon-gu-pa teneva in mano un mucchio di piccoli semi. Chan-pa aveva nella sua una rondine svolazzante e guardava suo padre con aria serena. Col sorriso di chi invece della morte avesse trovato la vita.

A Nor-bu cadde di mano il coltellaccio e la vecchia megera si nascose il volto nelle ampie maniche dell’abito cerimoniale.

Ritorna la primavera

Alla meglio l’inverno passò per Hon-gu e la sua famigliola. Alla meglio ce la fecero ad uscire dal lungo tunnel del buio invernale. Le giornate si allungarono e divennero più calde.

Ritornarono le rondini a svolazzare sotto il ponte.

Sat-tva trascorreva le sue giornate estasiato a guardare le rondini.

Un giorno Sat-tva si presentò dal padre con le mani piene di semi bianchi.

“Onorevole padre, le rondini per dieci giorni sono passate vicino alla nostra porta e ogni volta hanno lasciato cadere dal loro becco questi semi. Che vorrà dire?”

Hon-gu guardò i semi. Li riconobbe. Erano uguali a quelli che aveva tenuto in mano il vecchio Hon-gu-pa.

Allora si ricordò della visione avuta presso il ponte di Ch'ônggyech'ôn.

“Vieni piccolo Sat-tva, andiamo a seminarli. Credo che questi semi ci porteranno qualcosa di buono.”

E così fu.

Alla fine dell’estate dappertutto era pieno di enormi zucche bianche.

Hon-gu in tutta franchezza si domandava che avrebbe dovuto farsene di tutte quelle zucche.

Sì certamente qualcuna l’avrebbero mangiata, ma lì ce n’era per almeno un anno.

Sarebbero di sicuro marcite la maggior parte. Forse avrebbe dovuto regalarne. Ma a chi? Chi avrebbe accettato di mangiare delle zucche cresciute sotto un ponte, e per di più bianche?

Così ne prese un paio e se le portò in casa.

Le mise sul tavolo, pensando che quando sarebbe arrivata Gim-pa-ma-san ne avrebbe aperta una e l’avrebbero cucinata per la sera.


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Venne la sera.

Tutti e tre erano raccolti davanti al tavolo e sul tavolo giacevano le zucche, l’unica cosa che si avesse da mangiare.

Tutti e tre fissavano le zucche. La prospettiva di mangiarle tutt’al più bollite non era delle migliori, ma di altre possibilità non ce n’era.

Hon-gu si alzò e prese un coltellaccio, quello stesso che aveva brandito il cattivo Nor-bu.

Sferrò la prima coltellata. Il coltellaccio affondò, e vi rimase conficcato. Hon-gu dové fare forza per estrarlo.

Quando finalmente lo estrasse cominciò a colar fuori una schiumetta bianca.

Le facce dei tre furono alquanto deluse, pensando che quella schiumetta bianchiccia, nonostante la fame, non invitava davvero a mangiare la zucca.

“Sarà buona da mangiare Onorevole padre?”, chiese Sat-tva.

Hon-gu stava per rispondere non lo so quando all’improvviso dalla zucca schizzò fuori un getto di fumo bianco, violento e fischiante come un geyser.

Fiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!!!!!

I tre saltarono all’indietro impauriti e con gli occhi stranulati.

Quale altra disgrazia avrebbero dovuto subire ancora una volta? Non ne avevano sin qui anche troppe sopportate ?

La stanza si riempì di fumo. Il rumore scomparve e ne seguì un lungo silenzio. Non si vedeva più nulla. I tre a poco a poco ripresero animo, e cercarono di aguzzar gli occhi.

“Non vi sembra di vedere un lume sul tavolo?”, disse incredulo Hon-gu.

“Sì Onorevole padre sul tavolo c’è un lume!” rispose Sat-tva.

“Per la verità sul tavolo ci sono tre candelieri!” aggiunse Gim-pa-ma-san.

“La tavola è imbandita d’ogni ben di Dio!” borbottò di nuovo Hon-gu.

“Guardate Onorevole padre e Onorevole madre sul tavolo c’è di tutto! Riso, frutta, verdura, carne!!!”

“E i candelieri sono d’oro!!!” miagolò Gim-pa-ma-san.

Il fumo si era diradato e ai loro occhi si presentava la scena superba e sontuosa di una tavola enorme completamente arredata di ogni tipo di bontà.

I tre spinti da una fame da lupi si mossero all’unisono verso il tavolo e stavano per slanciarsi sui cibi, quando Hon-gu urlò: “Fermi !!! Questo è un miracolo! Questo è senz’altro un miracolo che il buon Dio ha per noi preparato. Dobbiamo ringraziarlo. E preghiamo pure per mio padre, il venerando Hon-gu-pa, e per Chan-pa, che hanno voluto con le loro apparizioni annunciarci la buona mente di Dio verso di noi!”

E così nonostante i morsi della fame, violenti e insopportabili, i tre passarono più di un’ora in raccoglimento, pregando.
Poi ci si buttò sui cibi e si mangiò come non mai.

Alla fine i tre erano esausti e spossati dall’ infinito mangiare. E gran senso di pace e, finalmente, di sicurezza su di loro discese come uno spirito. Tutto nella casa era ora calmo, tranquillo. Non più trapelava l’angoscia del domani che sarà? Dell’infinita insicurezza del giorno a venire che la povertà si trascina dietro come le ombre della notte le angosce nere degli incubi onirici.

I tre si guardarono. Le loro facce erano rosse e accaldate dall’afrore del cibo e del vino di riso, che anche il piccolo Sat-tva aveva bevuto con il permesso e la benedizione dell’Onorevole padre e dell’Onorevole madre.

I tre si guardarono. E per poco quasi non si riconoscevano. Pieni. Sazi. Soddisfatti. Sereni per la prima volta da anni. Si guardarono come per dire: “E ora?”.

Era lì. Lì sul letto di Chan-pa che li aspettava. Che con pazienza aveva atteso che loro mangiassero e fossero saturi e fossero finalmente felici non solo di spirito ma anche di corpo.

I tre la guardarono a lungo. Non avevano il coraggio di dire quello che pensavano, per paura che un sogno finisse. Aspettava e pareva emettere una luce, quasi avesse intorno a sé un’aura dorata.

Hon-gu riafferrò il coltellaccio. Avanzò. Gli altri due dietro. Uno dietro l’altro. Quasi appiccicati. Come a passo di tarantella affrontarono a viso aperto l’arcano.

Un passo. Un altro. Un altro ancora. Stop. Gli furono davanti.

La zucca brillava davvero, come se fosse piena di oro zecchino.

Hon-gu alzò il braccio… e vibrò il colpo più forte che poté… e chiuse gli occhi: e chiusero tutt’e tre gli occhi…

Tooookkk!!!

………

………

Fiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!!!!!

Di nuovo fu quel sibilo di un geyser. Di nuovo il fumo invase la stanza.

Sat-tva fu il primo ad aprire gli occhi.

Guardò l’Onorevole padre e l’Onorevole madre che ancora tenevano strettissimi gli occhi, per paura di aprirli.

Sat-tva non si capacitava, non capiva più dove fosse. La capanna era scomparsa. Vedeva in alto il cielo stellato. Ma tutt’intorno era un luccicare di fondamenta d’oro di un palazzo sterminato in via di costruzione.

“Onorevole Hon-gu! Onorevole Gim-pa-ma-san ! Guardate!!!!”

Gli Onorevoli guardarono. Sì, dalla zucca erano scaturite le fondamenta di un palazzo gigantesco, tutte in oro zecchino.

La madre si appoggiò al (in quella situazione) poco Onorevole marito.

Sat-tva schizzava da tutte le parti.
Poi si proiettò fuori dal palazzo percorrendo un interminabile corridoio e ritrovandosi in mezzo alle zucche ne afferrò una, e preso un pietrone, cominciò a colpirla a più non posso. All’improvviso fu sbattuto a terra dal potentissimo getto di fumo che schizzò fuori dalla zucca.

Picchiò la testa e svenne.

Quando si riprese sentì suo padre che lo schiaffeggiava e gli urlava: “Guarda Sat-tva! Guarda!”

E intorno a sé vide delle enormi pareti d’oro puro che altissime salivano su verso il cielo.

Dalla zucca erano spuntate le pareti di un palazzo miracoloso.

Questa volta, ratta ratta, fu la madre, la mitissima Gim-pa-ma-san, che alzò con una forza e un’ agilità, a lei stessa sconosciute, e poi sbatté a terra violentemente una terza pesantissima zucca.

Di nuovo il sibilo assordò la notte. Di nuovo il fumo li avvolse e li nascose per qualche minuto al mondo umano.

Quando il fumo si diradò lo spettacolo fu magnifico. Mozzafiato.

Davanti gli stava un palazzo imperiale, d’oro finissimo, che brillava e luccicava, che forse già lo si vedeva dal centro di Seoul.

Tutte le finestre erano illuminate e si scorgevano da fuori saloni principescamente arredati.

Hon-gu si sentì mancare alla vista di quel miracolo.

Sat-tva, era invece così pieno di adrenalina che già era corso via e già stava aprendo altre zucche: da questa uscivano forzieri di denaro, da quest’altra gioielli, da un’altra ancora pietre preziose, da quella più a destra abiti sfarzosissimi, da quella più a sinistra una carrozza trainata da puledri bianchi e neri….

Nor-bu viene a sapere del miracolo

In un breve torno di tempo in tutta Seoul si parlò del miracolo occorso a Hon-gu e alla sua famiglia.

Di bocca in bocca corse la notizia. E migliaia di persone si recarono a vedere la reggia d’oro zecchino, nata così dal nulla nel giro di una notte, in pochissime ore.

File di mendicanti, amici e questuanti si precipitarono a chieder denari.

La famiglia di Hon-gu fu davvero spaventata da questa orda di umani che giornalmente avanzava verso la reggia.

Ma Hon-gu questa volta si comportò davvero da Onorevole. Fu disponibile verso tutti. A tutti spiegò che cos’era successo quella notte. Narrò delle apparizioni avute (tacque solo delle rondini, per paura che la gente avrebbe reso la vita impossibile a quegli esserini).

Assoldò anche delle persone che se ne stessero, giorno e notte, davanti alla porta del palazzo a dirigere la folla e ad elargire con oculatezza un obolo a tutti.

Applicò il detto di Buddha: “Lasciamo passare sette giorni e poi si vedrà”.

Così passarono sette giorni, forse anche un mese. Ma piano piano, come la saggezza del Beato prevedeva, l’ondata decrebbe. E Hon-gu acquistò quello che gli spettava: un profilo, una posizione nella scala gerarchica come la filosofia confuciana comandava, e grande rispetto per il suo comportamento umanitario e saggio.

Piano piano la vita riprese con un tono normale.

Quando Nor-bu seppe la notizia, cominciò a girare per la casa come un pazzo. Con un umore nero che più nero non si poteva. Non faceva che lamentarsi con la vecchia megera che a sua volta non faceva che lamentarsi con l’acido Nor-bu.

“Ma ti rendi conto! Quel buonannulla! Quello sfaccendato! Quello smidollato! Tutte le fortune ha! Quella famiglia di vermiciattoli odiosi, senz’ arte né parte…”.

“Hai ragione Nor-bu” rispondeva la megera “non c’è giustizia in questo mondo.”

“Il mondo va davvero all’incontro” rincarava Nor-bu “anche le querci fanno i limoni.”

E così passarono gran parte dell’inverno a rodersi il fegato.

Ogni tanto giungeva notizia a Nor-bu delle meraviglie del fratello.

“Sai Nor-bu oggi ho visto passare tuo fratello in carrozza. Che spettacolo! Tutta la gente lo guardava e si faceva da parte”, diceva uno.

“Ehi Nor-bu ho saputo che tuo fratello ha dato una festa nel suo palazzo. C’erano proprio tutti. Si dice che ci fosse anche l’ambasciatore della Persia!”, diceva un altro.

Nor-bu diventava pazzo. L’invidia e la rabbia gli corrodevano l’anima. Non dormivano più, lui e la sua degna compare.

“Ma come avrà fatto?”, si domandavano. E andavano in giro ascoltando le dicerie. Origliavano. Allungavano il collo. Facevano finta di non sentire, ma sentivano.

Quando Nor-bu incontrava qualcuno che voleva narrargli di come suo fratello avesse fatto fortuna lui disprezzando, comprava. Faceva orecchio da mercante. Respingeva, ma non troppo, le offerte dell’avventore ma si prolungava nel discorso. Indugiava, dicendo che quello sfaticato sicuramente aveva rubato, e allora l’altro incalzava e insisteva a dirgli che non era vero e che solo lui sapeva come Hon-gu si fosse arricchito.

Così lentamente ebbe un quadro mostruoso in cui Nor-bu non ci capiva più nulla: si andava da un grosso furto perpetrato addirittura alla Banca di Korea, fino all’intervento di un mago biondo e alto con gli occhi azzurri venuto in Korea più di mille anni fa, perché aveva degli affari urgenti da sistemare con i giapponesi: vox populi, vox diaboli verrebbe voglia di dire!

Così passò un altro inverno. L’orgoglio di Nor-bu vacillava sempre più. L’invidia, la rabbia, il livore e l’astio si commutavano in voglia di sapere come quel disgraziato avesse fatto.

A primavera inoltrata Nor-bu uscì fuor di casa con passo severo e deciso e si diresse con un ghigno feroce al palazzo del fratello.

Lungo la strada avrebbe potuto assaporare il profumo dei fiori, il tepore primaverile, il sole caldo che baciava e sfiorava la pelle, il volo radente delle r o n d i n i... Tutto questo avrebbe potuto, se solo non fosse stato chiuso come una monade in quel suo universo tutto nero, denso e tristissimo.

Quando arrivò al palazzo per poco non svenne alla vista di una delle settime meraviglie del mondo.

Non l’aveva mai visto, ne aveva sentito tanto parlare ma a trovarsi lì davanti le gambe gli tremarono e il cuore gli sussultò.

Il palazzo, tutto d’oro zecchino, era circondato da mura a perdita d’occhio che racchiudevano un terreno di forma quadrata. Ai quattro punti cardinali corrispondevano quattro porte. La porta principale era a sud ed aveva tre archi: quella centrale era per il Signore (Hon-gu!) e la sua famiglia; quelle laterali erano una per i visitatori e l’altra, ancor più piccola, per i questuanti.

Norbu si sentì piccolo piccolo di fronte a tanta possanza e magnificenza. Quasi un verme nudo.

Con l’animo di un verme bussò al portone dei questuanti.

Un servitore alto e con portamento nobile venne ad aprire.

“Vossignoria mi permetta…io…sarei Nor-bu il fratello di Hon-gu…Vorrei vedere mio fratello…”, disse a testa bassa.

Il servitore lo squadrò dall’alto in basso.

“Mi segua, La prego. Suo fratello L’aspettava da tanto tempo.”

Mi aspettava da tanto tempo, ma come? Com’ è possibile? Un uomo così ricco, così…nobile? Mi aspettava?

In tal modo rimuginando, la vecchia arpia cominciò a salire i gradini d’ingresso al palazzo.

Subito il suo cuore subì un altro tuffo. Sulle scale d’ingresso stavano, enormi, le statue degli Haet'ae, i mitici animali "mangiafuoco” a protezione contro le fiamme provenienti da sud, dal monte Kwanaksan.

Sempre seguendo il nobilissimo servitore diede inizio alla scalata verso il secondo piano attraverso corridoi lunghissimi, che sempre salivano in ordine di importanza.

Il secondo piano dell'edificio era appunto disposto, secondo la filosofia confuciana, in tre livelli ascendenti, in modo che gli ospiti potessero accomodarsi secondo il loro grado: gli ospiti più importanti più in alto e i meno importanti in basso

I suoi occhi stranulavano. Si contorcevano da tanto c’era da vedere, da essere meravigliati…da diventar matti.

Hon-gu lo ricevette nella sala delle udienze che stava all’apice del secondo piano dell’edificio.

Appena Nor-bu varcò la soglia, Hon-gu gli si fece incontro per abbracciarlo: “Fratello, finalmente sei venuto. Aspettavo la tua visita da molti mesi!”

Nor-bu confuso, stordito da tutto quel lusso, irritato dalla benevolenza del fratello si ritrasse un po’ all’abbraccio ma non vi si sottrasse del tutto per rispetto all’alta posizione gerarchica a cui Hon-gu ormai apparteneva.

Accanto a Hon-gu se ne stava il piccolo Sat-tva che, a giudicare dalla sua faccia, non sembrò apprezzare molto tutta quella disponibilità del padre verso il fratello.

“Onorevole… fratello…vedo che Lei… volevo dire tu, hai fatto fortuna…e che fortuna da quello che ho potuto vedere! Così tutto all’improvviso. Sai…ho sentito molte chiacchiere…su come hai fatto…come si può dire…fortuna? E allora in nome del vincolo di sangue che ci unisce…ehm…avrei apprezzato da Lei…ehm…volevo dire da te… sapere la verità…anche per controbattere….mi capisci a tutte quelle dicerie…che sento in giro…”

“Hai fatto benissimo”, rispose Hon-gu. “Ma vieni. Rimani a pranzo da noi. E ti dirò ogni cosa. La cosa che più mi preme è superare ogni rancore e incomprensione fra noi, in nome di nostro padre Hon-gu-pa.”

Nor-bu torna a casa e si lambicca il cervello

Nor-bu se ne tornò a casa verso la metà del pomeriggio. Dire che fosse mal disposto sarebbe non dico un eufemismo ma di certo una non del tutto veritiera inesattezza. Per la strada il capo gli bolliva. Gli orecchi gli fumavano. Gli occhi roteavano come palle fiammeggianti. Dentro era tutto un ribollire: una pentola a pressione che stava per esplodere.


Le rondini! Ti rendi conto, le rondini!!! Ma chi vuol prendere in giro quello? Ora le rondini vanno in giro a regalar soldi a chicchessia! Quel lardoso e borione pretende che io ci creda. Ma figuriamoci! Se io, uomo di mondo che sono, vado a creder a tali frottole…Eppure che altro?...Rubare?…non mi par davvero il tipo. Ci vuole ben altra tempra, che quella di un coglionazzo come lui…. E se fossero state veramente loro? In fondo che mi costa? Sotto al mio tetto ce ne sono tante di rondini! Basterà che aspetti che ne cada una… che c’ è di più facile? E allora la prendo le curo una gamba e la rilascio e poi anch’io l’anno prossimo avrò tante zucche bianche piene di ogni ben di Dio!

Così discorrendo Nor-bu se ne andò a casa come avesse gli stivali delle sette leghe.

Arrivato a casa chiappò la moglie e gli raccontò ogni cosa. Non vi dico il dialogo! Certo fu un dialogo fra avidi. Allucinanti e distorcenti discorsi. Arzigogoli, in cui il senso dell’avarizia e della cupidigia la facevano da padroni. Dove Buddha avrebbe avuto un bel da fare, se avesse voluto parlargli del suo samma sankappa (retto pensare) o del suo samma vaca (retto parlare). Perché di retto lì non ci fu proprio nulla, se non l’andar a diritto per ore e ore in insulti e improperi, tutti diretti appunto verso un’unica persona, invocandone la sfortuna e la malasorte per l’avvenire.

Tuttavia la conclusione fu che si sarebbe dovuto provare. Tanto non costava niente. E quindi male non avrebbe fatto.

E detto fatto, provarono.

Fin dalla mattina dopo si piazzarono, di buon’ora, sotto il tetto a naso all’in su a istudiar l’architettura dei nidi, e a uccellar perché qualche rondinotto ne cascasse giù rompendosi una gamba. Tutto era già pronto: stecchi, filo di refe e una ciotolina di latte. Rancido naturalmente, perché il rondinotto è pur sempre un animale e del latte fresco sarebbe stato sprecato, e se anche fosse stata una persona, nulla sarebbe cambiato: il latte vecchio, che volete?, non è che si può buttar via a cuor leggero. Costa!

Passarono due settimane a naso per aria. Ma niente. Solo molte deiezioni, che spesse volte centravano in pieno i due fanatici, inducendoli a bestemmie e altri epiteti, qui irripetibili.

“Possibile che non ne caschi giù neanche uno di quei dannati!” sbottava di continuo Nor-bu.

Si dice che la donna ne sappia una più del diavolo. E, laddove non arrivò la crudeltà di Nor-bu, vi giunse quella della sua degna compare. Un giorno che la bile della megera ebbe un trabocco, urlò: “Ora basta! Non ne posso più di stare a testa in su. Il collo mi fa un male bestia. Se la montagna non viene a Maometto, allora Maometto andrà alla montagna. Prendi una scala Nor-bu. La più lunga che abbiamo. Muoviti! Ti faccio vedere io come si fa.”

Appoggiata la scala al muro, la diavola vi s’arrampicò su con la destrezza di una scimmia. Arrivata in cima infilò una mano in un nido, rompendolo. Molti rondinotti ne precipitarono giù. Immediatamente ridiscese.

“Hai visto bellimbusto come si fa. Sicuramente con un volo così qualcuno di questi demòni si sarà rotto una zampa.”

I due presero uno ad uno i rondinotti per controllare. Ma con grande loro disappunto, o qualcuno era morto o erano tutt’interi e vivi e vegeti.

“ E che diamine!” esclamò la megera “neanche uno che si sia rotto una zampaccia!”

“Ti faccio vedere io come si fa” sbottò allora pieno di rabbia Nor-bu che non voleva apparir da meno della sua demoniaca compagna. E così detto prese un rondinotto e gli spezzò una gamba.

Pure l’avvoltoio della moglie chiuse gli occhi per la ripulsa di una tale azione.

“Vieni!” disse con fare imperioso Nor-bu “andiamo in casa e curiamogli la gamba!”

I due aspettano l’arrivo delle rondini

Sarà stato a causa delle tempeste di sabbia provenienti dalla Cina, che si abbattono in Korea nei primi giorni di primavera, sarà stato per la tensione di un lungo e interminabile inverno trascorso in attesa frenetica dell’arrivo delle rondini. Sarà stato per il fatto che si rodevano continuamente il fegato perché l’inverno non finiva mai e le rondini non arrivavano. Sarà stato perché nella loro dieta applicavano rigorosamente il principio di Guglielmo di Ockham entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem (gli enti non devono essere moltiplicati oltre il necessario) secondo il quale bisogna "tagliare" tutto ciò che è superfluo. E perciò a furia di “tagliare” avevano finito per ridursi a mangiare nient’altro che cipollotti rossi, perché costavano poco… Così i due si erano ricoperti di fastidiose bolle in tutto il corpo, e di herpes sulle labbra, e il loro volto si era completamente arrossito, da sembrare due autentici sgorbi deformi.

I due, che belli non erano mai stati, ora sembravano davvero dei mostri. E se il volto di una persona è un po’ come il suo biglietto da visita, beh!, quello di Nor-bu e di sua moglie era divenuto assai conforme al mondo interiore che li dominava. Nelle loro facce si rispecchiava l’umore e i sentimenti che dominavano il loro cuore.

Si diceva in giro che quella fosse la punizione di Dio che i due meritavano per aver cacciato, a suo tempo, il fratello di casa.

“Eh! vedi che c’è una giustizia divina.”, diceva uno “Prima suo fratello ha riavuto dalla fortuna ciò che Nor-bu gli aveva rubato. E poi ora guarda come si son ridotti! Due bubboni!”

“Guarda se non esiste il karma!”, diceva un altro “Nor-bu e sua moglie sono l’esempio che se fai cattive azioni otterrai cattivi frutti. Se compi buone azioni otterrai buoni frutti. Guarda che differenza fra Hon-gu e Nor-bu!”

“Tutto si paga!” sentenziava un grasso funzionario di corte, assai noto a Seoul per la sua rettitudine e forza morale “I beni sottratti con la spoliazione indebita, non sono durevoli e vi è come una sorta di nèmesi divina che riequilibra tutto!”

Insomma su questi presupposti si arrivò alla primavera.

E finalmente arrivarono le rondini.

Le rondini portano i semi


Nel cielo apparvero le prime rondini che si libravano leggerissime. E che spettacolo quel contrasto di blu indaco e i loro voli persi nella profondità e immensità di quel cielo!

Ma a Nor-bu tutto ciò non diceva nulla, nel modo più assoluto.

I due bernoccolosi già dalle prime luci dell’alba se ne stavano ad uccellar davanti al portone di casa, sempre più rossi e sempre più pustolosi.

Dopo lungo attendere finalmente un mattino presto avvistarono da lontano una rondine che aveva tutta l’aria di putar verso di loro.

Il cuore gli sussultò. I loro occhi, come radar che inquadri un aereo nemico, seguirono attimo per attimo l’oggetto ben identificato e il cui attacco era da lungo previsto.

Velocemente l’oggetto si avvicinava. I due avevano gli occhi fuori dalle orbite, e una forte tachicardia li colse. Finalmente il sogno di un lunghissimo e putrescente inverno pareva realizzarsi!

L’attesa pareva essere appagata!

L’oggetto si avvicinò con una velocità impressionante. Quasi sembrò colpire in faccia Nor-bu. Ma quando gli fu a poco meno di mezzo metro con un perfetto colpo di virata, voltò ad u e riprese improvvisa quota, lasciando cadere a terra un piccolo seme nero!

I due pustolosi si precipitarono all’unisono sul seme picchiando una bella capocciata, che invece del seme videro solo tante stelle.

“E’ mio!” urlava Norb-bu. “E’ mio!” urlava la megera.

Con una mossa felina la megera si impossessò per prima del seme. Hon-gu non più rosso ma paonazzo, livido, con il volto gonfio come un pallone e, probabilmente, vicino ad un ictus per la pressione ai massimi livelli, le sferrò un pugno violentissimo stendendola per terra e poi non contento le affibbiò pure un calcione nello stomaco.
La megera per tutta risposta gli si avventò alle gambe e gli azzannò un polpaccio. Nor-bu stridé come un maiale nel cui cuore avessero affondato profondo un succhiello.

Ma mentre si picchiavano ecco che un’altra rondine punta dritta verso di loro e con la stessa identica manovra lascia precipitar giù un altro seme nero.

Le due belve si sgrovigliano e di nuovo si slanciano sul secondo seme, fra pugni, calci, morsi e graffi.

Nemmeno il tempo di arrivarci che subito ne arriva un’altra, e giù un altro nero seme. E poi un’altra, e un’altra ancora, un’altra, e poi un’altra, e un’altra ancora e un’altra….

I due pazzi corrono senza meta di qua e di là curvi, piegati come scrofe alla ricerca del cibo, il cui ventre è mai sazio, mai pieno.

Nor-bu e sua moglie piantano i semi

Dobbiamo dire la verità, per la semina furono davvero perfetti!

Ararono in profondità perché i semi potessero avere ossigeno. Lasciarono grossa la terra perché nel suolo circolasse aria in abbondanza. Misero i semi in ammollo in acqua tiepida per quattro, cinque ore.

Li posero poi in del terriccio per produrre i germogli, e non appena che questi ebbero tre, quattro foglioline li presero e li trapiantarono nel terreno precedentemente lavorato con ogni cura, a circa 60 centimetri l’uno dall’altro perché godessero di luce a sufficienza e fosse ridotto al minimo l’avvizzimento.

Quando infine le piantine cominciarono a crescere, e a mettere un bel po’ di foglie le tirarono su ponendogli dei sostegni. Ogni mattina vi zappettavano intorno per dare sempre aria al terreno.

Di buon mattino si recavano all’orto e le pulivano da ogni sorta di erbacce e da ogni parassita che si fosse depositato sulle foglie.

Se non fossero stati Nor-bu e sua moglie si sarebbe potuto dire che le amavano.

Ma trattandosi di loro è meglio non usare una simile parola: amore era davvero una parola fuori dalla portata del loro vocabolario.

Ma questo non gli bastava. Così ricorsero anche ad altre pratiche, perché alle loro piantine fosse assicurato il migliore dei futuri.

All’ingresso dell’orto posero i Changsûng o pali degli spiriti.

Erano una sorta di “totem”: sculture lignee che rappresentano delle divinità tutelari, e che erano poste per lo più all’ingresso di un villaggio per proteggere il villaggio, appunto, e i suoi abitanti dagli spiriti malvagi e dalle malattie.

Tutt’altro che belle queste sculture! Brutte e irregolari, occhi enormi e sporgenti, sguardi torvi, grande naso a forma di patata, e tuttavia con delle enormi bocche che si allargano da un orecchio all'altro in un grande sorriso di benvenuto.

Sotto questi pali all’ingresso dell’orto i due tenevano quotidianamente dei riti con offerta di cibo e preghiere per invocare il benessere dell’orto e un raccolto abbondante. Dopo aver celebrato il rito, i due consumavano con avidità, ma in comune, l’offerta di cibo.

Insomma non si risparmiarono davvero in nulla.

Per proteggere le piantine al meglio dalle intemperie si misero addirittura a costruire tutt’intorno un muretto di pietre. E qui finirono per tirar fuori nientedimeno che una vecchia usanza.

Costruirono questo muro tutt’intorno, andando in giro a cerca di pietre maschio e femmina, cosa tutt’altro che facile! Eppure passarono giorni e notti per i campi e per il greto del fiume Ch'ônggyech'ôn in cerca di simili pietre

Se, secondo l’antica usanza, nella costruzione del muricciolo si fossero messe le pietre a coppie, maschio e femmina, l'una sull'altra, il muro avrebbe resistito a qualunque tempesta e alle intemperie.

Ma siccome l’equilibrio e la temperanza è privilegio solo dei saggi (e non era il caso dei nostri), si volle esagerare. Pensando che la pietra-femmina è simbolo di fertilità si esagerò nel metter dentro più pietre-femmine che pietre-maschio.

E già questo non fu un buon auspicio.

Ma comunque i due si sentivano soddisfatti e si gongolavano come due grassi maiali a guardar le loro pianticelle crescere.

E almeno qualche pustola gli scomparve e un po’ di rossore venne meno.

Le zucche crescono e portano la tanto agognata sorpresa

Le zucche crebbero. Belle. Rigogliose. Sontuose direi. Ma nere.

I due, i cui occhi piangevano di gioia al solo guardarle, non ci fecero caso. Né Nor-bu tantomeno si ricordava che Hon-gu gli aveva parlato di zucche sì, ma bianche.

Nor-bu era felice. E difatti sul suo volto pustoloso e arrostito dalla dieta dei cipollotti rossi comparve un ghigno che si sarebbe dovuto interpretare come un segno della sua ottima disposizione interiore. Anche la megera abbozzava sul viso rosso, roso e corroso dalle vesciche, una specie di sardonico sorriso.

Insomma, unicuique suum, erano a loro modo felici.

“Sono pronte” disse la megera “possiamo aprirle anche stasera”

“No!” rispose imperioso Nor-bu “Non ancora. Lasciamole maturare ancora un po’. Se le apriamo adesso che sono sempre acerbe, sicuramente avremo meno. Aspettiamo che siano più mature e di sicuro avremo di più”.

E così aspettarono un altro mesetto.

La megera non stava più nella pelle.

“Nor-bu dobbiamo aprire le zucche, o marciranno”, sbottò di nuovo una mattina.

“No!” disse insistente Nor-bu “Ho detto di no!” e le misurò in faccia la zappa che usava per zappettare quotidianamente la terra intorno alle zucche.

Ma le zucche stavano già appassendo.

La megera non intese ragioni e con un volo da gazza ladra gli strappò leggera la zappa di mano e come posseduta si gettò a ripetizione sulle zucche spaccandone in contemporanea almeno una decina.

“Che fai pazza!” urlò infuriato Nor-bu raccogliendo un grosso pietrone e schizzando verso la moglie per spaccarglielo nel capo.

Ma mentre che la pazza aveva finito di spaccare la decima zucca e Nor-bu ne stava per spaccare una assai più dura, dalle zucche cominciò a colar giù un liquido nero e repellente.

Fu un attimo. L’aria si riempì d’un tratto di un alito di peste.

I due si bloccarono, pieni di paura e stupore.

Un vento feroce si mise a soffiare dal profondo delle zucche e nubi plumbee ne fuoriuscirono abbattendosi con tuoni e fulmini sulla casa di Nor-bu che pareva che volessero schiaffeggiarla.

La casa fu sollevata in aria, e mentre che si sollevava in aria da sotto il pavimento si aprì una cripta e, fra tanfo e fumo, tutta coperta di vermi una ridda di stinchi bianchi ne veniva a galla insieme a un

mare di teschi.

La casa presa in custodia dal vento feroce fuggì verso la montagna Kwanaksan, e tra un bagliore di fiamme lontane scomparve.

Dalle zucche emersero dieci enormi draghi neri che cominciarono a vomitar fuoco da tutte le parti e dove il fuoco cadeva tutto scompariva. In breve fu tutto bruciato. E solo odor di fiamme e di morte rimase là dove prima sorgeva la dimora di Nor-bu e della sua compagna.

Il fiume Ch'ônggyech'ôn muggì gonfio d’acqua, e fuoriuscendo dagli argini esondò ribollendo e si portò via tutto, lasciando dietro di sé la lunga striscia della bava fiammeggiante dei draghi.

Intanto i due, non più rossi ora ma neri come due tizzoni d’inferno per le fiamme e il fuoco, erano corsi come due lepri sul ponte, e da lì disperati avevano visto ogni loro bene venir giù divorato e ingoiato da quel cataclisma.

Accanto a loro si era radunata una fitta folla di passanti e curiosi che gridavano all’indirizzo della bava fiammeggiante che portava seco il Ch'ônggyech'ôn: “E’ la coda del diavolo!” E’ la coda del diavolo!”

Qui finisce la nostra storia

Qui finisce la nostra storia.

Ma prima di lasciarvi permettetemi ancora di aggiunger qualche parola.

Nor-bu e la sua moglie divennero poveri in canna, e finirono a chiedere l’elemosina.

Ma vi domando: credete che i due siano cambiati? Credete che il loro cuore si sia intenerito? Che quel vaso di creta che è il bene che ci portiamo dentro fra mille vasi di ferro si sia finalmente aperto e abbia sparso le sue semenze nell’anima dei due tapini?

Vi domando allora: “Può la natura dell’acqua cambiar la sua natura in quanto acqua e diventar latte?”

E Hon-gu infine, il buono e mite Hon-gu in cui, all’opposto, il vaso di ferro era il bene e tutto il male era contenuto in deboli vasi di coccio che andavano spaccandosi al minimo urtar che avessero con quello di ferro, credete dunque che Hon-gu se ne sia davvero rimasto indifferente alla tragedia del fratello per gustarsi il piacere del freddo piatto della vendetta?

Di nuovo, e in fine, vi chiedo: “Può la natura dell’acqua cambiar la sua natura in quanto acqua e diventar latte?”


Ex ingenio suo quisque

demat vel addat fidem

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