venerdì 31 maggio 2013

In Matteo Patrone memoriam





Ciao Matteo.
Io ti voglio ricordare cosi' come sei in questa foto anche se non e' la tua foto.
La vedevo tutti i giorni.
Quando mi chattavi questo era l' uomo che mi parlava.
Con te Matteo ho condiviso i momenti che credevo piu'sereni della mia vita. I momenti piu' angoscianti.
Era solo un rappporto di amicizia online di collaborazioni eppure profondo. Di un rispetto che talora era quasi amore.
Di persona ci siamo incontrati solo una mattina. Dieci minuti per un caffe' in una libreria di Firenze che adesso non c'e' piu'.
La Rete ci ha fatti incontrare. La Rete ci ha fatti camminare insieme per un po'. La Rete ora ci separa.
Ci disconnette.
Ma non il cuore.
Ciao Matteo.

Fabrizio

martedì 28 maggio 2013

This must be the place


La strada correva davanti a noi. Lunga e diritta. Era una fuga per un luogo lontano. Talmente lontano che non l’avremmo mai potuto calcolare.
L’auto correva veloce. L’estate era già incominciata. Ero vicino a lei e finalmente mi sorrideva. Io le tenevo la mano e lei mi guardava felice.
Il motore cantava.
Poi la strada è impazzita. La macchina è uscita di lato. E sopra un’altra è finita. No so che lei ha provato. Ma ancora sorrideva prima che io chiudessi gli occhi. Poi il cielo sopra è crollato e l’estate è sparita.
Vorrei sapere a cosa è servito vivere, amare e soffrire. Spendere tutti i giorni passati ora che son dovuto partire insieme a lei che ancora mi sorrideva.

Quando mia figlia ha aperto l’urna con le ceneri mi ha liberato.
Non brucia il fuoco ciò che non ha forma e non occupa spazio e non fa parte di questo mondo ma si espande ed è presente in tutto l’universo.
Avevano bruciato il mio corpo che mi aveva veicolato per tutta la vita ed ora ero finalmente libero.
E ora prendevo finalmente forma: la forma del Nulla.
Osservavo ora distaccato quello che vedevo. E tutte le sofferenze non vi erano più.
Me ne stavo lì guardando quelle persone. Le mie figlie soprattutto. E tutto quello che avevo sofferto non aveva più importanza.
Ora ero libero. Non c’erano più i problemi allo stomaco che mi avevano accompagnato per la parte finale della mia vita. Non avevo più fibrillazioni. Non avevo più ulcere. Non avevo più ernia iatale.
Ero come avevo sempre sognato.

Il mio bagaglio era leggero: portavo con me di tutta la vita solo tre ricordi: i miei genitori, le mie figlie, mia zia Primetta che mi aveva tanto amato in vita.
Ma ancora ero qui. Non riuscivo a staccarmi da quei luoghi e pochi ricordi. Vagavo intorno come se non sapessi che strada prendere.
Mi sentivo in attesa. In attesa di una chiamata. Sentivo che una porta stava per aprirsi e tuttavia non sapevo quando, come e dove.
Attendevo. Come ho atteso tutta la mia vita.

Mi domandavo che fosse rimasto di quel mondo che non mi era mai piaciuto e tuttavia era l’unico possibile.
Ho provato a chiamare le mie figlie di cui avevo appena dimenticato i nomi e non riuscivo a pronunciare ma ancora ne vedevo le fattezze e sentivo un richiamo.
Era come se avvertissero e si guardavano attorno spaesate. Qualche volta, quasi che sentissero una voce, guardavano su, in alto, verso di me. Ma non mi vedevano. Mi cercavano ma non mi vedevano.
Fra me e loro ormai c’era una grande distanza: un grande vuoto. E l’unica cosa che ci univa era il ricordo.

Guess that this must be the place