giovedì 21 ottobre 2010

RACCONTO DI NATALE: STORIA DI PELO, IL RAGAZZO CHE VINSE LA MILANO-SANREMO

STORIA DI PELO,

IL RAGAZZO CHE VINSE LA MILANO-SANREMO

Piero Chechi era un ragazzino di quindicianni. Come il padre, come il nonno, come il bisnonno, faceva il boscaiolo. Nessuno lo chiamava Piero ma tutti “Pelo”: Pelaccio il nonno, Pelone il babbo, Pelona la mamma, Pelina la sorella, Peluccio, Peletto, Pelino i tre fratelli.

Tutti i giorni estate o inverno inforcava la bicicletta e via per le viottole dei campi, per i sentieri scoscesi e impervi, con il biciclettone di ferro del nonno con tanto di gomme piene. Salite, discese, torrentelli, broti, e via su e giù per quei poggi accidentati. E quando pioveva via, con le ruote che affondavano dentro il pantano, ritto sui pedali per chilometri e chilometri con la pioggia che gli picchiava sugli occhi mezzi chiusi.

E quando passava per l’aie, tutti i ragazzini gli correvano dietro e gli facevano la pipinara. “C’è Pelo, c’è Pelo! Dài Pelo! Dài Pelo che sei il primo!”

E allora sì che ci dava dentro, Pelo. Pareva un fulmine su quelle stradine bianche, tutto impolverato. Partiva con il buio e tornava a casa con il buio.

Abitava in località i Sassi Bianchi, fra San Gemignano e il Castagno.

La sera gli piaceva andare all’osteria, perché lì c’era gente che aveva girato il mondo: chi era stato a Volterra, chi a Cecina; i più azzardosi a Livorno, qualcuno addirittura a Grosseto.

E lui ascoltava con gli occhi sgranati e la bocca aperta. Si parlava di tutto, ma soprattutto di bicicletta. Si parlava di Petit-Breton, di Girardengo, di Ganna, di Gerbi “il Diavolo Rosso”. Della terribile Parigi-Roubaix, su quell’inferno di strada tutta pietra. Del Giro d’Italia, del Tour de France. Ma i racconti che più l’appassionavano erano quelli sulla Milano-San Remo. Perché era corsa quasi sempre con un tempo terribile, perché c’erano le mitiche salite del Turchino e della Cipressa. Perché si correva vicino al mare, che Pelo aveva visto solo una volta e ne aveva un ricordo impressionante.

Così cominciò ad andar matto per le corse in bicicletta. Si mise a seguire tutte le gare che si facevano nei dintorni. Prese ad allenarsi di brutto sui saliscendi tra San Gemignano, Certaldo, Gambassi e il Castagno: giro questo che faceva anche due volte al giorno.

C’aveva preso davvero gusto.

Il babbo, Pelone, cominciò però ad imbestialirsi con quel figliolo che invece di andare nel bosco a spaccar legna se ne stava tutto il giorno su e giù per quei poggi. E per di più mangiava come un pescegatto.

Ma Pelo non sentiva ragioni e, testardo com’era, continuava ad allenarsi. “Domani babbo vò a fare una ‘orsa a Montignoso. E gliel’è la festa di’ Patrono e fanno una ‘orsa in biciretta. Mi ci sono iscritto e ci vò.”, disse una sera a cena Pelo al babbo.

“Tu’ se’ matto! T’ha dato di vorta i’ cervello! E’ l’ora di falla finìaa. E’ l’ora che tu’ metta i’ capo a posto. Da lunedì si torna a’ i’ lavoro ni bosco e basta con questa storia della biciretta, che tutti mi pigliano pe’ i’ culo. ‘Pelone, ho visto i’ tu’ figliolo ieri in biciretta, ma che vò ffa’? Un laora più con te, o che s’è messo a fa’ i’ cicrista?’ ”

Quella notte Pelo fece un sogno. Gli pareva di essere una locomotiva. “Com’ è bello essere un treno!”, pensava. Correva all’impazzata lungo la rotaia che gli sembrava infinita. Correva, correva lungo quella strada senza fine.

D’improvviso finì la rotaia e davanti vide una salita tutta bianca per il ghiaino, ritta e scoscesa da far paura.

D’un tratto si trovò a metà di quella salita. Guardò in giù e vide che veniva su pian piano un omino tutto nero. Sudicio, imbrattato di fango, con un biciclettone di ferro, nero anch’esso, enorme tanto che quell’omino vi pareva davvero piccolo lì sopra. Gli passò davanti a Pelo. Gridò qualcosa. Ma la voce gli mancò a Pelo. L’omino gli sfrecciò di fronte come un razzo. Pelo si girò e lo vide lassù in cima alla salita perso in mezzo a un chiarore che accecava a guardarlo.

La mattina Pelo si alzò presto che nemmeno si ricordava più del sogno.

A Montignoso vinse. Sull’ultima salita partì lui con il biciclettone del nonno e non ce ne fu per nessuno. Gli altri avevano tutti la bicicletta da corsa, ma non vi fu nulla da fare. Pelo parve un missile. Arrivò a Montignoso con venti minuti sui primi inseguitori.

Quel giorno fece anche amicizia con Giovannino.

Giovannino, che tutti chiamavano Giovannin senza paura, perché era ardito e amava ficcarsi nelle imprese più temerarie fu l’ultimo ad arrivare.

Pelo era sul palco, in attesa d’essere premiato, quando vide arrivare Giovannin senza paura. Pelo lo guardò: “Come dev’èsse triste arrivare utimo, da solo, quando gli attri son bell’arrivai!”. E non si sentì più felice d’aver vinto.

Quando gli portarono i fiori per la premiazione Pelo disse: “I fiori un si mangiano. Portatemi piuttosto una bella pastasciutta a me e a qui’ ragazzo laggiù!” , indicando Giovannin senza paura, e gli corse incontro.

Da quel giorno diventarono grandi amici. Si allenavano insieme, insieme andavano all’osteria.

Il babbo di Pelo, che sotto la scorza dura era tutt’altro che cattivo, a veder quel su’figliolo vincere, non vi dico che provava. Non stava più nella pelle, e fu il primo e il più accanito tifoso di Pelo: “I’ mi’ figliolo è davvero forte. Lo dicevo io! Diventerà un gran corridore!”, andava dicendo a chiunque gli si parasse davanti.

Pelone non era molto alto, e poco più di lui lo era Pelo, il figliolo: 1,60 l’uno 1,55 l’altro. E qui viene il bello: a quel che si dice, un certo giorno Pelo prese uno di quei corbelloni da boscaiolo con le cinghie. Vi mise dentro il suo babbo, se lo caricò sulle spalle, e salì in bicicletta e via su e giù per quei saliscendi ad allenarsi.

Così faceva ogni volta che il babbo era libero. Quando invece il babbo non poteva nel corbello ci metteva dei mattoni. Oppure quando c’erano le fiere nei paesi vicini ci metteva le palle da bocce per noleggiarle alle dette fiere.

Pelo continuava a vincere una corsa dopo l’altra. Ormai Pelo era un vero corridore. Allora il babbo lo portò dal Gazzarrini a Volterra e gli comprò la sua prima bicicletta da corsa.

I suoi avversari facevano di tutto per fermarlo. Una volta un certo Pandolfo da Montaione, scommesse con Pelo che non ce l’ avrebbe fatta a mangiarsi una gallina lessa intera, e che tantomeno ce l’avrebbe fatta a partire. “Vuoi scommettere Pelo?”, gli disse Pandolfo. “Scommettiamo. Tanto vinco io!”, gli rispose Pelo. E fu di parola. Mangiò tutta la gallina, e vinse addirittura per distacco.

Un’altra volta ci fu uno, Carletto da Castelfiorentino, che durante la corsa gli fece bere la famosa acqua purgativa di Pillo. Ma anche qui nulla da fare. Pelo vinse, come sempre. “Vi vò in culo a tutti!”, gli rifilò a Carletto al traguardo

Lo picchiarono perfino. In una corsa di trecento chilometri, passando in località Asciano, all’inizio di una salitella - Pelo era da solo, in fuga, come spesso succedeva - lo aspettò una masnada di furfantelli che lo legnarono ben bene.

Già da un pezzo si mormorava che Pelo avesse un patto col diavolo.

Tutti cercavano di scoprire il segreto per cui lui andasse così forte. Qualunque cosa facesse prima, durante o dopo la corsa, subito tutti lo imitavano sperando di aver carpito il segreto della sua forma.

Si sapeva ad esempio che Pelo metteva nella borraccia un biberone d’acqua, vinsanto e tuorlo d’uovo sbattuto. Immediatamente molti, saputolo, lo imitarono. Risultato: tanti, s’era nel periodo del solleone, o per il gran caldo o per il vinsanto o per tutt’e due, si sentirono male e finirono all’ospedale.

Un giorno Pelo si presentò alla partenza di una corsa a tappe con un bel sigaro toscano in bocca; fumava che pareva un turco. Il giorno seguente così, alla firma prima della partenza, s’aveva la sensazione d’essere ai soffioni di Larderello. Metà del gruppo, o forse più della metà, fumava che parevano dannati. Andò a finire, al solito, che a mezzo della corsa più della metà dei corridori si ritirò, perché accusavano difficoltà respiratorie.

Ormai Pelo era un mito.

Ma una cosa in quei giorni lo preoccupava molto: il suo amico Giovannino.

“Giovannino sta’ attento ai fascisti”, gli diceva spesso Pelo. Ma quello duro, ostinato, sprezzante del pericolo continuava a parlar male del regime e a far propaganda comunista. Giovannino aveva più volte ricevuto avvertimenti. Un giorno gli avevano bucato tutt’e due le ruote della bicicletta; un’ altra volta, durante una corsa - Giovannino s’era staccato dal gruppo - una macchina gli s’era avvicinata e aveva cercato di farlo finire in una fossa.

Uno di noi avrebbe cercato, a quel punto, di mettere la testa a posto, o quantomeno sarebbe stato più prudente. Figuriamoci Giovannin senza paura! Nulla. Sapete cosa fece? Una notte, saranno state le due o le tre di notte, piglia e va al Castagno; scassina la porta della sacrestia, sale sul campanile della chiesa e ci mette un grammofono e dài a tutta càllara “L’Internazionale”, e via a gambe levate. Dopo neanche due minuti è lì una squadra di fascisti (”Dàgli al comunista! Dàgli al comunista!”, urlavano), che per dieci minuti prende a fucilate la cima del campanile, finché alla fine non ne vien giù il grammofono e si rompe in mille pezzi.

Per sua sfortuna, qualcuno aveva visto Giovannino e fatta la spia ai fascisti. Giovannino, avvertito, si dette alla macchia.

I fascisti vanno a casa sua, non lo trovano e allora pigliano la sua bicicletta a martellate e gliela disfanno. Non contenti prendono il suo povero babbo e lo portano alla Casa del Fascio. E lì a bottiglioni d’olio di ricino lo purgano ben bene.

Quel pover’uomo del suo babbo per poco non ci lascia le penne e ci rimane secco: “Son bell’e morto! Son bell’e morto!”, piagnucolava il poveraccio mentre tornava a casa, sbombardando quasi avesse mangiato fagioli per un mese.

Da quel giorno Giovannino la giurò ai fascisti. E quando poteva entrava nelle case dei più ricchi e gli rubava tutto, per poi darlo alle vittime del fascio.

Ma la passione della bicicletta era grande e Giovannino soffriva molto a star lontano dalle gare. Allora prese a travestirsi e a mischiarsi tra la folla per andare a vedere il suo amico Pelo. Pelo lo sapeva, gliel’aveva fatto dire Giovannino che andava sempre a vederlo vincere.

E ogni volta che Pelo saliva a prendere i fiori si guardava intorno (”Giovannino, dove sei?”), per vedere se riusciva a distinguerlo fra la gente attorno al palco.

E venne il giorno della Milano-Sanremo. Il sogno di Pelo fin da bambino. L’aveva affascinato la vittoria di Ganna, che fuggito sul Turchino, sotto il nevischio, caduto in discesa e ripreso da Georget ne fu infine superato. Ma buttatosi caparbiamente all’inseguimento lo riacchiappò a Savona per poi proseguire da solo e vincere.

Se Ganna era il corridore di quegli anni, come poteva dimenticare il mitico “Diavolo Rosso”, Gerbi, così chiamato perché indossava sempre maglia rossa, berretto rosso e scarpette rosse, con cinghietti rossi. Una specie di Mefistofele senza barba e baffi che, primo fra tutti, si depilò le gambe. Un matto da legare, un astuto, uno scaltro, duro e individualista afflitto da uno strano complesso di superiorità, che solo nella sete di fuga solitaria riusciva ad esaltarsi e ad appagare il suo senso mistico della corsa. Correre era vivere per lui. Correva quasi si trattasse di vita o di morte.

Una volta alla Corsa Nazionale, presso Asti - Gerbi era in testa - un ragazzo gli tagliò la strada e lui cadde a terra. Svenuto e sanguinante lo trasportarono in una farmacia. Qui gli suturarono la ferita alla bell’e meglio. Si mandò a prendere del ghiaccio per scongiurare la commozione cerebrale in attesa di essere trasferito all’ospedale. Gerbi si risvegliò, si ritrovò tutto fasciato - “E’ morto, è morto il Diavolo Rosso!” si diceva fuori - ; “Che è successo?” domandò lui.

Quando gli spiegarono che era caduto per colpa di un ragazzino e che nel frattempo erano già passati alcuni altri corridori, tutto malconcio, terreo in volto, risalì in bicicletta e pedalando raggiunse il gruppetto di testa e poi Gajoni che era al comando, in fuga solitaria. Lo staccò e fu primo a Milano.

Si scrisse allora che aveva pedalato come un incosciente, sudicio di sangue e di polvere; con la febbre martellante e mille faville davanti agli occhi; il profilo glabro e tagliente che spuntava a tratti fra le bende, come un diavolo. Le gesta di Gerbi, sentite all’osteria, gli erano rimaste fitte nel cuore a Pelo. Sentiva di assomigliargli al Diavolo Rosso, per temperamento e per coraggio. E se Gerbi si allenava con i mattoni legati alla sella della bicicletta, lui si allenava con il babbo nella cesta. Se Gerbi si era guadagnato il soprannome di Diavolo Rosso, Pelo si prese quello di Campione della Tripolitania. Correva con una bicicletta senza parafanghi, e all’arrivo era tanto sudicio e infangato da sembrare un africano.

“Babbo son emozionato. Mi tremano le gambe. Mi tremano le gambe solo a pensarci. Domani un ce la fò!”, disse Pelo al suo babbo la sera prima.

“Ma và ‘ia, coglione!”, fu il commento del babbo.

Quella notte Pelo stette male.

Il sonno fu agitato. La notte rifece quello stesso sogno. Gli pareva di essere una locomotiva che filava all’impazzata sui binari. D’improvviso s’arrestò ai piedi di una salita impervia. Questa volta però c’era un bivio. A destra la strada saliva ampia e larga verso la cima del monte dove un bagliore accecante impediva la vista. A sinistra si dipartiva una stradicciola buia e nera.

Lui fece per prendere a sinistra. Ma un vento fortissimo cominciò a soffiargli sul fianco sinistro, costringendolo allora a prendere la strada di destra. Mentre saliva, vide giù Giovannino che solo solo aveva imboccato quella stradina buia. Era triste e gli pareva piangesse. Urlò. Non gli venne niente alla bocca. Stranamente non era più sulla bicicletta. Era a metà salita, in piedi, come un tifoso ai bordi della strada. Guardò verso il basso, ed ecco che di nuovo veniva su quell’omino tutto nero e sozzo, su quel biciclettone di ferro.

Guardò l’omino e poi guardò in basso verso la stradina. Giovannino non c’era più.

Il vento ricominciò a soffiare violento sul fianco sinistro, e gli piegò il volto verso la cima del monte, nell’attimo che l’omino spariva nella luce abbacinante.

Quando Pelo si risvegliò era tutto sudato e agitato. Fece per rizzarsi sulle gambe: non gli ressero e gli ronzava la testa. Sentiva di avere un febbrone da cavallo.

“Vatta! Vatta!”, urlò.

Dalla camera accanto comparve il fido Vatta, massaggiatore.

“Aiutami, sto male. Ho la febbre.”

“Ci penso io!”, rispose Vatta, e andò di là in camera.

Ritornò con un boccettino in mano: “Bevi questo!”, gli disse.

E Pelo senza far domande l’ingoiò: “Che è?”, chiese.

“Nulla, una cosa che fò io con l’erbe! Bevi e starai meglio!”.

Meglio lì per lì stette. Ma le gambe tremavano, e l’emozione gli tagliava il fiato.

Alla partenza il tempo era da tregenda. Erano in centocinquanta alla partenza. C’era Binda, Girardengo, Piemontesi, Guerra.

Milano era fredda e nebbiosa.

Si indossò la giacca. Cominciò a piovere. Verso Pavia smise di piovere ma il cielo era sempre minaccioso: riprende a piovere a Voghera. I corridori sono irriconoscibili per il fango. Ai centottantasei metri di Ovada ci sono i primi scatti, e va in fuga un gruppetto, tra cui Girardengo.

Si supera i confini del Monferrato e si entra nella collina ligure. Si attacca i cinquecentotrentadue metri del Turchino. Nevica. Tutto è gelato. La strada appare ricoperta di quindici-venti centimetri di neve ed è battuta da una bufera di fiocchi impazziti, che ferisce le carni dei corridori, che non sembrano più figure umane ma strani addobbi natalizi.

Pelo sta male. Le gambe non girano. Si sente gelato. Sbuffa. Sgrugna. Ansima. Ma sale con il biciclettone. Ma ormai sta per mollare. Le lacrime gli vengono agli occhi. Vede tradito il sogno di bambino. Guarda su in alto e vede la cima avvolta da un chiarore abbagliante, impossibile quasi a guardarsi. “E’ Troppo lontana. Non ce la faccio più. Mollo!”

Ma d’improvviso sente una pacca, due pacche.sulle spalle. “Vài Pelo. Vài!Vài!”, gli urla una voce familiare. Si gira. E’ Giovannino. “Vinci Pelo! Vinci per me!”: gli urla in faccia ancora.

Pelo fa appena in tempo a voltarsi che vede due figuri vestiti in abiti borghesi scuri scendere da una macchina che era dietro di lui, acchiappare Giovanni e a forza di legnate lo caricano sulla macchina. “Vai Pelo! Vai! Vinci per me!…”, gli ribolle ancora nelle orecchie.

Il sangue gli sale alla testa, un calore improvviso gli entra nel corpo. Guarda in alto. Vede la cima chiara, ora, calma e placida. Ora la cima è più vicina.

S’alza sui pedali, Pelo. Scatta. Scatta. Scatta, scatta a ripetizione. Ora pare il Pelo di sempre. Danza ora, sui pedali. Riacchiappa il gruppetto, riacchiappa Girardengo in fuga e lo stacca e scollina da solo. Si butta giù a capofitto nella melma della discesa e zig-zagando sparisce fra le curve.

Tutti si aspettavano il crollo di Pelo sul Berta, ma i muscoli di Pelo non fanno scherzi e continua la sua fuga solitaria, e alla media straordinaria di 29,485 km all’ora taglia tutto solo il traguardo di Sanremo.

Quando Binda e Piemontesi arrivano sono già passati venti minuti. Girardengo a venticinque. Guerra a trentadue. Il gruppetto dei migliori a quaranta.

E Pelo?

Di Pelo allora si perdono le tracce.

A quel che si narra Pelo sparì. Alla premiazione uno gli mormorò in un orecchio che Giovannino era morto, ammazzato dai fascisti a suon di legnate. Allora si dice che pianse, buttò da una parte i fiori. Prese la bicicletta e se ne andò verso la Cipressa.

C’era uno strano chiarore lassù in cima alla Cipressa: forse vi nevicava. Qualcuno racconta di aver visto un omino nero, come un negro, tutto sudicio che saliva, con un biciclettone anch’esso nero, su verso quel chiarore lontano lontano.

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