giovedì 21 ottobre 2010

INTERVISTA AD AURELIANO AMADEI REGISTA DI "20 SIGARETTE"


INTERVISTA AD AURELIANO AMADEI REGISTA DI "20 SIGARETTE"


Pubblico per gentile concessione de www.ilpolitico.it una mia intervista a Aureliano Amadei il regista di "20 sigarette" , l'unico film italiano a vincere qualcosa (sei premi!) a Venezia. Un film decisamente sottovalutato da una giuria poco attenta alla qualità. Ma leggete l'intervista frizzante di Aureliano. Che parla di cinema e non solo...

 

 

Innanzitutto come sta di salute? Nel film pare portare ancora evidenti segni dell’attentato…

«Il mio fisico è decisamente strapazzato, per un 35enne. In particolare ho una caviglia in necrosi e dovrò subire nuovi interventi. Comunque non mi posso lamentare».

 

Aureliano come giudica il suo film “20 sigarette”

 

«E’ difficile giudicare se stessi. Poi in questo film mi giudicherei doppiamente, essendo autore e soggetto allo stesso tempo… Posso dire che è stata e continua ad essere un’esperienza straordinaria. Sono soddisfatto del risultato e, perché no, del mio lavoro. Il film è già nelle sale e il pubblico mi riferisce di aver vissuto, in parte, quell’esperienza con me; questo è qualcosa di cui essere molto soddisfatti…»

 

Da 1 a 10 quanto si darebbe?

 

«Sono convinto che il film sia buono, essendo un opera prima mi permetto di alzarmi un po’ il voto (ride, ndr)»

 

A Venezia ha davvero vinto il miglior film? O magari ha vinto la logica del prodotto più vendibile? O delle amicizie, o qualche altra logica che non ci è dato sapere?…A me “Somewhere” mi è parso veramente un prodotto confezionato sullo stile di “Lost in translation” ma senza il cuore e la magia di quel film. Un prodotto appunto…Molto meglio “20 sigarette” a mio avviso, che ha scene davvero toccanti (come la mano sanguinosa che cerca la salvezza) e uno strepitoso Vinicio Marchioni decisamente superiore a Stephen Dorff, legnoso e mono-tono nella recitazione

 

«Purtroppo il fatto di essere uscito in sala a mostra ancora in corso, non mi ha permesso di vedere altri film(s). Ho sentito dire che “Somewhere” sia il peggior film della Coppola, sono comunque curioso perché il peggior film di un grande regista è spesso meglio del miglior film di un regista mediocre. Ho seguito le polemiche, anche se credo che ci sarebbero state in ogni caso, ormai ci siamo abituati. E’ un peccato che la querelle tra registi di nome abbia oscurato i 6 premi vinti da “20 sigarette”, unico film italiano ad aver portato qualcosa a casa. Tutto ciò premesso, non vince mai il film migliore. Spesso i film migliori sono proprio esclusi dalla competizione (ad esempio “L’uomo che verrà” nella scorsa edizione). E’ evidente, da anni, che non si seguano solo criteri qualitativi…»

 

Per me il suo film “20 sigarette” è a due marce. La parte iniziale è forse quella meno riuscita. Quelle immagini velocizzate, quegli incastri tipo puzzle, la voce narrante, mi pare che rendano quella parte un po’ irritante e spaesante e non elevano il film sopra la media. Ma per le scene e per i luoghi di guerra in Iraq Le faccio invece i miei complimenti. Lì, lei davvero è bravissimo. Quella è la parte più riuscita e più impressionante. Per me in quelle scene lei fa le scarpe anche a film come “Green Zone” di Paul Greengrass.

Com’è stato girare quelle scene?

 

«Proprio ieri un suo collega mi faceva l’osservazione opposta; prima parte più forte, seconda parte più debole. Questa divergenza di opinioni mi conforta (sono tendenzialmente più d’accordo con lei), ma la prima parte è stata girata così per un motivo: vuole essere assolutamente nella media, non vuole elevarsi. Accompagna il percorso del protagonista che si trova dalla leggerezza della vita di tutti i giorni (potrebbe essere uno qualunque di noi), allo spaesamento totale. A tal proposito sono felice che Lei abbia usato l’aggettivo “spaesante”, è un effetto desiderato. Le sequenze “di guerra”, fortunatamente, mettono d’accordo tutti. Non voglio fingere di averle tirate fuori solo dalla mia memoria o dalla mia emotività. C’è una grande ricerca tecnica, portata avanti con il direttore della fotografia Vittorio Omodei Zorini. Oltre a raccontare l’attentato nel modo più diretto e onesto possibile, si è scelto di inchiodare lo spettatore alla poltrona e di fargli vivere quei minuti insieme a me. Chiaramente, per me è stata anche un’esperienza toccante; più volte mi sono dovuto fermare in preda a svarioni, giramenti di testa. C’è voluta molta acqua e zucchero»

 

Chi sono i suoi maestri nel cinema? Insomma quali sono i registi da cui si ritiene più influenzato?

 

«Sono nato in una famiglia di cinema e i miei primi maestri sono stati mio nonno, mio padre e i loro collaboratori (Pupi Avati mi ha concesso un lungo apprendistato con la DUEA film). In questo caso, però, non mi è possibile riconoscere un’influenza perché il film è così personale che non mi è sembrato nemmeno di fare cinema! Per quel che riguarda i miei gusti cinematografici, adoro Jeunet et Caro, ma sarà difficile ritrovarli nel film…»

 

Che ne pensa del Neorealismo? Secondo me è, purtroppo, il male oggi dei giovani registi italiani, che tranne poche eccezioni non sanno uscire da questa ragnatela culturale che è poi anche il ristagno perenne della cultura italiana.

 

«Una tradizione gloriosa, in qualunque campo, ha comunque i due lati della medaglia. Sapesse quante volte mi sono sentito dire: “Una buona opera prima! Certo, non è I pugni in tasca di Bellocchio…”. Insomma, ci mancherebbe! Sarebbe anche sbagliato, se lo fosse. Certo, c’è chi ancora tenta di scimmiottare gli anni andati (e non solo il Neorealismo) ma c’è di che essere ottimisti. Negli ultimi anni il cinema italiano sembra in ripresa. Ci sono molti registi che, finalmente, stanno trovando lo spazio per esplorare linguaggi originali dal respiro internazionale. Speriamo che i mercati mondiali se ne accorgano e smettano di aspettarsi da noi sempre la stessa minestra riscaldata. Questa secondo me è la sfida più grande, rivalutare nel mondo la cultura italiana di qualità, ora siamo ai minimi storici»

 

Secondo lei quanto ha da imparare il cinema italiano da quello americano?

 

«Il cinema non ha bisogno di confini. Sono un internazionalista, vorrei che non esistessero un cinema italiano o uno americano…»

 

Lei è stato più volte oggetto di distorsione nelle sue dichiarazioni post Nassirya. Che immagine si è fatto dei media?

 

«Anche l’indipendenza dei media, oggi, è ai minimi storici, fa parte del degrado della nostra cultura. Al di là delle influenze, però, c’è un problema di semplificazione: la storia, nella sua complessità, non fa notizia e quindi se io dico: “Attenzione a considerare tutti i caduti di Nassirya come degli eroi senza macchia e senza paura, o come dei mercenari…”, uscirà da una parte: “Amadei non intende onorare la memoria dei caduti di Nassirya”, dall’altra: “Io, ex no global, convertito a Nassirya - ero contro la guerra e ora non lo sono più…”. Poi si dice che abbiamo un paese spaccato in due…»

 

Elio Germano dedicò il premio di Venezia come migliore attore «all’Italia e agli italiani che fanno di tutto per rendere il paese migliore nonostante la loro classe dirigente». Che ne pensa di quella frase?

 

«Ho adorato le dichiarazioni di Elio a Cannes, adoro Elio Germano. Era giusto rispondere in qualche modo alla polemica innescata dal ministro Bondi. Detto ciò, io non ho così tanta fiducia nell’Italia e negli italiani, credo che il problema della classe dirigente non sia poi così recente. In fondo l’Italia, sotto questo profilo, è rimasta immutata nei secoli. Il problema è proprio quello, non si è mai fatto pulizia, si è sempre riciclato: Unità d’Italia, Grande guerra, Fascismo, Repubblica, 68… i poteri forti non sono mai stati toccati, secondo me. Comunque ieri ho dedicato il premio Pasinetti al “civile ignoto”, a quel bambino il cui corpo mi ha accompagnato in ospedale e di cui non saprò mai il nome. Il milite ignoto, fortunatamente, non esiste praticamente più, il civile ignoto è sempre più frequente»

 

Come vede questo Paese, dove ormai si parla solo di scandali, manovre politiche, compravendita di parlamentari, cognati che per cifre ridicole ricevono appartamenti a Montecarlo, politici da rottamare…e nessuno mai che parli dei veri problemi reali della gente e del Paese?

 

«Ho parzialmente risposto prima: mi sembra un anziano rettile che cerca di non accoppiarsi per evitare qualunque rinnovamento nella specie. Condannandosi così ad estinzione certa. Credo comunque che il problema maggiore sia culturale. Non ci indigniamo più, abbiamo accettato la logica del “facciamo un po’ come cazzo ci pare”. Nessuno ha più il coraggio di dire che se si vuole arrivare da qualche parte, bisogna anche fare dei sacrifici, lavorare, studiare, informarsi… nei decenni sono riusciti a convincerci che possiamo tutti svoltare vincendo al superenalotto, o seducendo un potente, o apparendo in tv. Dicono che le utopie sono morte, ma questa come la chiamiamo?»

 

Se dovesse dare un consiglio alla classe politica, che consiglio darebbe?

 

«Non sono esperto in materia. Credo che prima o poi qualcuno scoperchierà il vaso di Pandora. Credo che il politico nuovo debba innanzitutto abbattere quello vecchio rivelando tutte le magagne più scomode in maniera quasi suicida: In Iraq ci stavamo per l’ENI? Le missioni all’estero sono un modo per far pagare ai contribuenti i costi di sicurezza di alcune aziende? I voti parlamentari si comprano? E quanto si pagano? Le leggi le fanno i gruppi economici? I nomi? Il consenso popolare si compra in pacchetti? Ad ogni spostamento politico nel paese corrisponde uno spostamento di pacchetti? I nostri politici (compreso Berlusconi) sono solo le facce di poteri molto più forti? Eccetera…»

 

Il film si chiude con un ex compagno del centro sociale che l’accusa di essere cambiato perché non può mettere sullo stesso piano la morte dei i soldati italiani con la morte dei bambini iracheni. E’ davvero cambiato Aureliano, dopo quell’esperienza? E’ cambiato anche politicamente?

 

«Quasi tutto è cambiato. Forse quello politico è l’aspetto meno cambiato. Sono ancora anarchico, pacifista e contrario ad ogni operazione militare italiana all’estero. Ma, riassumendo, credo che quando si parla di vita o di morte, le categorie non contino più nulla. Prima di piangere, gioire o rimanere indifferenti per la morte di qualcuno, vogliamo almeno conoscerlo personalmente, conoscerne il pensiero o le ragioni? Altrimenti diventiamo disumani e l’anarchismo è tutt’altro. Se poi, come è venuto fuori da indiscrezioni non confermate, tra quei carabinieri ce ne era uno con l’aquila delle SS appesa in camera, non sarò certo io ad assolverlo»

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