PANTANI LA DISTRUZIONE DI UN MITO
Agli incubi
Che mi rendono impossibile la felicità
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Non tutti forse sanno che nel mondo c’è un sotto-mondo, un mondo sotterraneo. Un mondo sconosciuto ai più. Un mondo che talora si rivela e che paurosamente, orribile, viene su. Viene su per far soffrire.
Dapprima vagisce e si agita nelle fogne, nei tombini, nelle cloache, nei ristagni d’acqua ma poi cresce e si insinua, serpenteggia su per le tubature e viene in superficie. Viene su consapevole della sua forza a rapire, a distruggere e ad uccidere.
Per anni, per decenni anche, se ne sta là sotto in attesa silenziosa di una nostra debolezza per infettarci poi col morso dei suoi esseri notturni, delle creature dei suoi incubi notturni.
E’ come se laggiù sotto la superficie di questo nostro mondo se ne fosse partorito un altro. Come se invisibili cordoni ombelicali percorressero le nostre città da una parte all’altra alimentando inconsapevoli pedine del proprio veleno.
Questo è il mondo del Male.
Il Male quando affiora opera in modo violento, ma qualche volta perfido si finge Bene: agisce come se fosse Bene, ma va nella direzione opposta, verso quella che porta a ripetere il “salto originario”.
E forse questa è la figura più alta e più sofisticata del Male. Il modo più maligno di colpire ciò che lo disturba: il Male che t’induce a ripetere la caduta dell’origine.
Il Male non ama i miti: i miti insegnano, indicano ciò che è giusto e ispirano i giovani e le masse verso la positività del Bene.
Per questo il Male ha paura dei miti.
Ma il Male sa-già-in-anticipo, pre-vede. E già da lontano inizia a combatterli, perché i miti hanno la forza di stanarlo dalle città e dagli angoli sporchi, dai rifiuti del mondo, dal buio della mancanza di speranza, dove il Male s’intana pronto a balzare in avanti con i suoi aguzzi canini.
Il Male ha un punto di vantaggio: conosce la mappa del nostro corpo. Sa dove colpirci. Sa dove siamo più deboli. E di lì inizia spietato.
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Città di T*** 17 agosto del 199***
Ancora una scossa? Non è possibile! Sta per succedere il finimondo?
Ma quante scosse saranno state oggi?
Quindici? Venti? Tutte piccole…uno stillicidio….Cazzo già le 19,30! Sarà meglio che smetta di lavorare. Sto perdendo la testa. E’ tutto il giorno che lavoro. Basta.
Vado a casa…ma…no! Devo andare a casa. No!!! Ho detto no…non voglio farlo ancora…
Fu così che il procuratore P. spense la luce del suo ufficio e decise di andarsene a casa quella sera del 17 agosto 199***. Un’estate calda, torrida. Con gli abiti che ti si appiccicavano addosso per il continuo sudare.
“Buonasera Dotto’! Che se ne va?”
“Sì Esposito sono piuttosto stanco. Vado via è tutto il giorno che lavoro! Mi gira la testa…”
“Le chiamo la scorta Dotto’.”
“No! No Esposito grazie…stasera no. Ho bisogno di una boccata d’aria…ho la testa che mi scoppia…meglio di no. Vado a piedi: so badare a me…
Sapeva che mentiva. Mentiva anche a se stesso. Ma no…in verità aveva davvero bisogno di camminare, di vedere un po’ di gente…di sentire le voci della gente, gli odori…No! Non ci sarebbe andato lì. Ne era sicuro…
…Grazie Esposito non disturbare i ragazzi. Me la cavo da solo!”
“Ad ogni modo Dotto’ stia in campana! Oggi è un brutto giorno…”
“E perché mai…? E’ una così bella giornata!”
“Dotto’ non mi dica che non ha sentito il terremoto?”
“E come no! Mamma mia sembrava la fine del mondo!”
“Ecco, appunto Dotto’: s’è revortat ‘o monno! Sa quante scosse sono state esattamente Dotto’?”
“Una ventina Esposito”
“Dicìotto per l’esattezza Dotto’! Dicìotto! E sa quanto fa dicìotto diviso tre?”
“6 Esposito! Ma che domande fai?”
“No dottore fa tre volte sei: 6 6 6 !!!”
“Certo 6 x 3 = 18. E’ così! Che c’è di strano?”
“Ah Dotto’ si vede che Lei non è di Napoli: 6 6 6 è il numero del Diavolo Dotto’!”
Il Procuratore P. rimase un po’ interdetto.
“E poi oggi è anche venerdì 17 Dotto’ non lo dimentichi!”
Dio ma che strana coincidenza! Non aveva tutti i torti Esposito.
Troppe coincidenze per non stare attenti. In fondo anche lui, sebbene nato a T***,
un pochino superstizioso lo era…ma…ma l’aveva vista l’altro giorno passando in macchina…e quelle gambe non le aveva dimenticate…l’idea di toccare quelle gambe fino a…
Non ci andare! Non ci andare! Oggi non è il giorno giusto. Anche Esposito ti ha avvertito. No, non ci andrò non è…il…giorno…giusto…
Uscì dal palazzo di Giustizia e fece la solita strada lungo Corso*** che avrebbe fatto se fosse andato a casa in macchina.
Non ci andrò.
Si ripeteva per la strada.
Non ci andrò.
Ma quando arrivò all’altezza di Corso*** le sue gambe andarono nella direzione che non avrebbe mai voluto.
Ormai erano quasi le 20,30 e la luce cominciava a mancare. Si disegnavano le prime ombre. Ma l’ombra che lui cercava la conosceva bene, sapeva bene dove trovarla.
Quando la vide per un attimo gli mancò il respiro. Era appoggiata al muro dietro un cassonetto della spazzatura, con una minigonna cortissima che faceva risaltare le sue gambe lunghe affusolate. Alta, con due spalle da scaricatore di porto. Un trucco estremamente marcato. Due labbra rosse che sembravano l’anticamera dell’inferno.
“Va bene seguimi!” gli disse.
Lei si diresse verso il cancello di una villa in stato di abbandono.
Aprì il cancello.
Si intravedeva la vegetazione di un giardino ormai inselvatichito. Abbandonato a se stesso e preda di erbacce.
“Vieni” gli disse “vieni che ti mostro il paradiso”. E gli soffiò una nuvola di fumo in faccia.
Lo portò nei pressi di un piccolo stagno.
Ma lei si avvicinò a lui. E il procuratore P. sentì solo il suo odore. Un odore forte come di muschio e di antico. Un odore che gli penetrò in tutti i pori. E lo portò in un altro mondo.
Lo baciò leggermente sulle labbra.
“Ehi niente male bell’uomo!”
Si voltò e volgendogli le spalle si piegò leggermente in avanti.
Sentì un calore, un fuoco bruciargli dentro. Un fuoco irresistibile che cominciò a divorarlo.
La sua vista si annebbiava e lui si rese conto che qualcosa non andava.
Ma troppo tardi.
“Resta nel mio mondo. E’un altro mondo lo sai. Qui è il mondo di sotto. Dove tutto galleggia. Dove tutto muore. E’ il mondo infinito delle ombre…presto anche tu sarai di questo mondo.”
Lei si voltò. I suoi occhi erano bianchi e freddi come quelli di un morto. Si divincolò e si gettò agile come un gatto selvatico su di lui. L’ultima che sentì fu l’alito di lei: sapeva ora di carogna come quella sepolta nello stagno.
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Tour de France 1997, Alpe D’Huez
Un respiro. Un respiro che diviene sempre più affannoso.
Un piccolo punto. Un piccolo punto giallo-blu che sale come un missile fra mille altri colori ai bordi della strada.
Il respiro diviene assordante. Insopportabile.
Il puntino giallo-blu passa velocemente.
Ritornerò quello di prima? Devo ritornare quello di prima! O salto io o saltano loro!
Se mio nonno fosse qui a vedermi…oh nonno!…ma vincerò, vincerò per te! O salto io o saltano loro…ritornerò quello di prima?Devo ritornare quello di prima…ce la farò…?
La testa pelata sale su come un automa ad una velocità impressionante fra due ali di folla che lo toccano, lo spingono, lo picchiano sulla schiena…Sale! Sale! Sale su come un missile!
La strada è una bolgia. Il rumore esplode in modo infernale. Motociclette. Clacson. Macchine. Urla. Marco sale su fra un tributo di folla e di gloria.
Sale su verso la vittoria.
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Agrigento 1999
Un gruppo di giovanotti svitati vestiti di nero si avvicinano seguiti da una telecamera con lo stemma del serpente. Il gruppetto s’insinua tra la folla. Botte spinte. Si fanno largo.
“E’ vero Marco che ti dopi?” chiede uno di quei pazzi vestiti di nero sbattendo il microfono sui denti di Pantani.
Marco ha una brutta reazione. Dice qualche parola irripetibile. Reagisce violentemente.
La telecamera con il serpente filma. Il suo occhio spietato inizia l’opera di demolizione.
Marco rientra in albergo.
Gia prima dell’inizio del Giro la maldicenza si era messa in opera. Qualcuno aveva definito questo ottantaduesimo Giro d’Italia come il “il tour delle stazioni sciistiche”. Un Giro costruito su misura per lui.
Marco rientra in albergo. Sente il peso della responsabilità sulle sue spalle.
Ora sa che c’è un nuovo nemico da combattere. Ancora non sa spiegarsi quello che hanno fatto i gendarmi francesi al Tour l’anno prima.
Li hanno presi come bestie. Li hanno trattati come bestie. Li hanno maltrattati come si maltrattano i cani bastardi. Ma questa è gente che lavora, che si allena tutti i giorni. Non sono ladri, non sono banditi. Solo la fatica, tanta fatica li fa arrivare. Ma come si può trattare così uno che lavora!
Rientrando in albergo s’imbatte in A.: “Ma come cavolo è possibile?” gli urla in faccia Marco “Ma te che ci fai qui? Questi sono arrivati fino a me con il microfono in mano: ma te che ci conti qui se non li sai gestire? Da me non ci devono arrivare! Lo capisci? Ci devi pensare te a loro non io! Chiaro!!!”
Che ti succede Marco perché ti arrabbi così con lui? In fondo è uno dei tuoi migliori amici.
D’un tratto i suoi occhi (per caso?) s’imbattono in quelli di un tizio vestito in modo strano. Sta in piedi vicino al bar dell’albergo, vestito quasi fosse uscito da un ballo in maschera. Indossa un paio di scarpe da charleston, un paio di pantaloni a righe da cerimonia, e sopra un frac con tanto di cappello a cilindro.
Ma chi è quello?
Stranamente nessuno sembra accorgersi di lui. Anzi pare che solo Marco lo veda.
Quel tipo gli sorride.
La sua faccia è scura come quella di un marocchino. Ma i suoi occhi sono impressionanti: verdi come il fondo di una bottiglia.
Il tipo continua a fissare Marco e a sorridergli.
Si avvicina.
“Ciao Marco”
Lo saluta il tipo con una voce mielata, quasi stucchevole.
“Ci Conosciamo?”
Risponde Marco un po’ intimorito.
“No Marco. Non ancora. Ma presto ci conosceremo. Io ho molto da offrirti Marco. Ancora non lo sai…ma lo scoprirai, lo scoprirai Marco…”
Marco è confuso dal suo modo di fare equivoco e taglia duramente, com’è solito fare con la gente che non gli piace.
“Scusa ma non voglio comprare niente. Scusami ma ora devo andare…ho avuto una giornata proprio terribile.”
“Non ti preoccupare. Ci rivedremo Marco”
E gli sorride.
“I morti pesano Marco. Ricordatelo!”
Gli grida quel figuro mentre la porta dell’ascensore si chiude e la faccia del figuro si eclissa.
Marco rimane lì perplesso.
“I morti pesano? Che avrà voluto dire?”
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Firenze, ristorante
Rocco 23 anni. Labbra carnose e piene. Sorriso dolce. Capelli nero-pece lunghi, ondulati.
Occhi grandi e marroni. Naso leggermente camuso. Faccia fiera.
Una tipica faccia meridionale.
Rocco cameriere.
Rocco respira dentro.
Doloroso e sofferente respiro interno.
La testa ondeggia su e giù.
Dietro di lui solo colori.
I colori vanno su e giù.
La testa sembra stare ferma.
Corre leggero, agile come una gazzella fra i tavoli.
Musica in sottofondo.
Leggeri mormorii dei clienti.
“Rocco per favore mi porti il sale?”
“Eccolo signor Grandi!”
“Grazie Rocco!”
“Prego! Ci mancherebbe”
…
“Rocco questo vino sa di tappo!”
“Glielo cambio subito Baronessa!”
“Grazie Rocco! Sei sempre così gentile tu!…” e gli fa gli occhi dolci, lei di sessant’anni.
Rocco, ragazzo gentile e sorridente, giostra con i piatti in mano che sembra volare. Veloce, snello, una saetta che sfreccia fra tavoli e teste dei clienti.
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Interno cucina
Rocco con una pedata apre la porta d’ingresso della cucina.
Sempre da destra! Sempre da destra mi raccomando! Non dimenticarlo mai altrimenti ti cozzi con l’altro che esce da destra!
Entra in cucina.
Uno scoppio violento e improvviso del rumore di pentole, piatti, padelle che friggono.
Il luogo è un caos infernale. Il rumore esplode in modo orribile, esasperato.
“Ehi ricchione! Prendi questo piatto e portalo all’11. E non ci mettere le mani dentro. Va ‘bbuono!” gli fa Rollenscheiße, il cuoco terroncello che più sta sulle palle a Rocco.
“Sucamelo!” gli risponde Rocco.
“Che hai detto testa di cazzo? Che hai detto testa di cazzo? Sucamelo a chi? A sorate!”
Rollenscheiße prende un mestolo e glielo tira dietro.
Rocco evita il mestolo.
Gli altri cuochi ridono.
Rocco scompare.
Sinuoso come un gatto.
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Il sogno di Marco Modica 1999
La notte dopo la prima tappa, dopo l’arrivo a Modica, Marco è agitato.
Qualcosa sembra ancora non andare come lui voleva.
Il suo maniacale perfezionismo lo ossessiona, anche nelle cose minime in corsa.
La sella non va bene, due millimetri su allora…no meglio solo un millimetro…lo scarponcello è troppo stretto devo cambiarlo…il cambio è troppo duro…il cardiofrequenzimetro mi disturba me lo tolgo…
Marco sogna. Sogna quel figuro strano che ha incontrato nella hall dell’albergo.
Gli sembra di essere in una cripta di cui non riesce a vedere le pareti ma solo colonne altissime. Tutto è immerso nel buio. Ad un certo punto sente quella voce melliflua e sibilante. Si gira e se lo ritrova.
“Marco questo è il mio regno. E’ il tuo se vuoi. E’ il regno del sottosuolo. E’ un regno straordinario Marco. Tu non sai la potenza di chi governa questo regno. Questo è il regno delle ombre. Ma le ombre Marco aprono a tutto. Non è vero che le ombre nascondono: le ombre rivelano Marco.
Se vuoi, tutto questo sarà tuo.
Io ti darò tutto. Vincerai tutto. Tutto quello che nessuno ha mai vinto. Sarai il più grande campione di tutti i tempi.
Ma in cambio ti chiedo una cosa sola.”
Cosa? Cosa vuoi mostro?
“Voglio l’anima di tuo nonno”
L’anima di mio nonno?
“Sì, lui è ancora nel tuo mondo. E’ ancora vicino a te. Non vuole lasciarti. Vuole stare vicino a te ancora. Vuole proteggerti, dice lui.
Ma lui deve venire giù. Giù con noi Marco. Perché qui deve stare. Qui con noi!
Accetti Marco?”
Nnnnoooo!!!
Tutto svanì di colpo e Marco si ritrovò su una salita a cavallo di una grande bicicletta, mentre nevicava.
La neve era strana. Non era neve. Era polvere. Polvere bianca, con un odore penetrante.
E cadeva, cadeva continuamente senza fine ma strano a dirsi non si attaccava in terra: scompariva.
Anche la bicicletta era strana. Aveva la ruota anteriore molto grande e quella posteriore piccolissima.
Marco fa fatica a pedalare. Ma poi si accorge di avere un paio di ali sulla schiena e allora comincia a muoverle e la bicicletta prende velocità lungo una salita tutta tornanti come quella dello Stelvio.
D’un tratto gli si avvicina uno dei tifosi, che stanno al bordo della strada e lo incitano.
E’ un uomo alto, segaligno e dall’aspetto scuro.
Gli si avvicina con eleganza, leggero come una piuma, e quand’è a un palmo di mano gli sorride.
La sua faccia si trasforma d’un tratto in quella di una ragazza bionda bellissima, ma anche dalla bocca di lei spuntano improvvisi i due orribili canini bianchi.
Neanche il tempo di accorgersene che quella gli pianta un coltello nella schiena all’altezza del cuore.
Marco si sveglia nella notte tutto sudato con la bocca aperta come se stesse per urlare. Ma non urla. Non riesce a urlare.
Tutto è tranquillo. Neanche il rumore di una macchina che passa.
Solo un odore strano e pestilenziale, sembra entrare dalla finestra.
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Città di T*** 30 maggio 1999
“Mannaggia a’ morte! Scusate ma che me vulite fa’ ndurato e fritto? Ma avvocato gliel’ho già detto oggi il procuratore non può ricevere sta occccupaaato! Oh sant’Antonio…e finalmente avete capito. Oggi non riceve e non parla con nessuno!” Esposito riattaccò in malo modo il ricevitore.
Mannaggia che iuornata! E questo santuuomo del procuratore! Mannaggia com’è cambiato negli ultimi tempi. Sempre più strano! Non sempra chiù chillo e’ primma. Isso a me mme pare un altro A me mme pare cagnato! Boh?
E poi ’sta mania del Giro d’Italia…
Il procuratore P. era cambiato negli ultimi anni. Non era ancora quarantenne e aveva già tutti i capelli bianchi.
Sotto gli occhi gli erano venute delle borse nere. E i suoi occhi avevano come per incanto cambiato colore. Da neri che erano, erano divenuti verdi.
In procura si mormorava che avesse messo delle lenti a contatto di quelle colorate, come mettono gli attori.
Il suo carattere era divenuto taciturno e irascibile. Esposito non ce la faceva più a sopportare tutte le sue isterie quotidiane e difatti aveva già inoltrata la domanda di prepensionamento. Avrebbe perso qualcosa in soldi ma ci avrebbe guadagnato in salute.
Il procuratore si era incupito e invecchiato insomma. Ma nel giro di pochissimo tempo. In quattro e quattr’otto.
Eh avrebbe bisogno di una mugliera o’ guaglione!
Ma il procuratore P. non sembrava inclinare da quella parte e allora erano cominciate piccole, sottili ma allusive insinuazioni.
“Fesserie!!!”, lo difendeva Esposito. Ma pure a Esposito qualche dubbiarello era cominciato a venire.
Il procuratore P. era chiuso nella sua stanza dalla mattina. Neanche era uscito per mangiare.
Esposito origliò alla porta.
Si sentiva solo il televisore gracchiare.
Eh! l’ha presa con quel povero criaturo, che ce vulimm’ fa’ ?
Ma se l’Esposito, in quel momento, avesse visto il ghigno del procuratore mentre al Pelato saltava la catena sulla salita di Oropa, forse a Esposito i capelli gli si sarebbero rizzati e ingrigiti di botto e la pelle accapponata.
Esposito viveva a contatto con il baratro del mondo e pazziava. Senza la minima coscienza di quel male che avrebbe infettato anche lui giù giù fino alla terza o quarta generazione.
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Marco ha una nuova visione
Marco se ne stava in un bar di C. con la testa bassa appoggiata sui gomiti. Con le mani si massaggiava la pelata, e facendo leva sui gomiti ondeggiava in avanti e indietro come cullato da un ritmo che si fosse impossessato di lui.
Indossava una maglietta a righe simile a quella di un carcerato. Sembrava volesse anche nel modo di vestire manifestare la sua condizione di spirito.
Ancora rivedeva quelle quattro facce, bianche come tazze di porcellana, che gli alitavano davanti.
La vedi questa provetta? E’ la tua, vero?
La vedi? Non ci sono dubbi è la tua! D’accordo?
E’ la tua! E’ la tua! D’accordo!
I quattro “vampiri”, mandati dall’Uci, erano arrivati la mattina presto. Avevano bussato alla porta come SS. Gli avevano urlato di muoversi ad aprire la porta. Erano nervosi, agitati. Gli avevano prelevato il sangue in modo arrogante, cinico.
Poi era stato il finimondo…
Il corpo di Marco tremava.
Gli altri clienti davano occhiate interrogative al padrone del bar.
Quello rispondeva con un’alzata di spalle: come dire che Marco era così non ci si poteva fare nulla. Andava solo lasciato in pace.
Quasi che Marco avesse percepito quegli sguardi, tirò su la capoccia e si guardò intorno.
I suoi occhi a forza di stare a capo basso non mettevano bene a fuoco.
Allora si alzò e andò alla toilette per sfuggire la loro curiosità.
Si chiuse nella toilette e cominciò a orinare.
Poi scoppiò in un pianto dirotto. Piangeva Marco. Piangeva per la disperazione.
Perché avevano voluto fargli il culo? Perché fregare proprio lui? Lui che al ciclismo aveva dato tanto. Che aveva riportato sulle strade giovani, bambini, donne e non più solo vecchi!
Perché proprio lui?
“Ciao Marco. Ci rivediamo. Che ti avevo detto?”
Marco pensò di aver sognato.
Aprì la porta della toilette: nessuno!
“Sono qui Marco!”
Ma chi cazzo sei? Dove sei?
“Son qui Marco”
Marco abbassò gli occhi e vide.
Fece un salto indietro e gli si accapponò la pelle.
Ma chi sei???
Urlò Marco con la voce che gli fece cilecca per la paura.
“Ma come Marco non mi riconosci? Guardami meglio?”
Marco si fece coraggio e guardò.
Scorse una faccia. Non si distingueva bene ma era una faccia che lui aveva già incontrato.
“I morti pesano Marco. Non ti ricordi?”
Disse la voce come se leggesse nel pensiero di Marco.
Marco fece un salto indietro.
La stessa voce mielata!
“Che ti avevo detto Marco? Io potevo darti tutto…ma tu non hai voluto. E’ l’amore che tiene tuo nonno ancora vicino a te. Ma questo amore ti peserà Marco, rovinerà la tua vita. Noi lo vogliamo giù. O tu o lui scegli!”
Io! Mille volte Io che mio nonno!!!
Vide ancora quei denti scoprirsi fra labbra carnose.
Poi l’immagine scomparve.
Marco tirò lo sciacquone per cancellare ogni traccia di quell’essere schifoso.
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Firenze spogliatoio del ristorante
“Ah Fabbrì, l’ho dovuto fa’! Che altro potevo fa’. Io non ce la faccio più con questo lavoro. Io m’ammazzzo se non smetto. Ma ti rendi conto: cominci la mattina alle nove e mezzo, finisci se va bene alle quattro del pomeriggio. Alle cinque e mezzo ricominci…e guarda qua a che ora finiamo! Tutti i giorni è così. Poi il sabato e la domenica, quando tutti fanno festa tu dove sei? QUI!!! Natale? QUI!!! Pasqua? QUI!!! . E poi ’sto stronzo di Uncino. Le mance se le prende tutte lui. Ma ti rendi conto un direttore che si prende tutte le mance! Non ce la faccio più Fabbrì…E poi anche Marco l’unico mito che c’era…anche lui ce l’hanno rovinato! Tutta colpa di quello stronzo del procuratore P. Bombato o no se non vai non vai…se non ti alleni tutti i giorni e ti fai un culo così non arrivi, né con i primi né con gli ultimi. Cazzo se ci faceva divertire! Cazzo quanto mi ha fatto divertire! Ma ti ricordi che spettacolo sull’Alpe d’Huez. Che sballo! Cazzo come andava! Ti ricordi quel corridore francese quando se l’è visto passare davanti che pareva in motocicletta e ha allargato le braccia come per dire ‘Madonna ma che è in moto questo?’. E De Zan? Ti ricordi che quando parlava di Marco gli scappava da piangere…Dio che mito! Ce l’hanno voluto rovinare! Ora Marco non va più una sega…ora non ho più nemmeno lui! Se non prendevo un po’ di roba come facevo ad andare avanti?”.
Gli occhi di Rocco quando parlava di Marco si erano illuminati, tutta la sua faccia si era illuminata, era ritornato il Rocco che Fabrizio aveva conosciuto diversi anni fa quando Rocco, giovanissimo, era venuto lì a lavorare…prima della “cura Uncino”.
Che uomo quello! Che schifo d’individuo! Se ti faceva fare un extra ci prendeva addirittura una percentuale…
“Mah!… Rocco non so che dirti…Anch’io non ce la faccio più. Prima o poi mollo. Questo è davvero un lavoro di merda…Ti capisco. Anch’io sono incazzato con quel P. Ma perché cazzo ce l’ha tanto così con Marco? Non capisco. Quello lavora e lavora duro! Anch’io ho corso in bici. E so che è una fatica bestiale. Se non ti alleni tutti i giorni non arrivi. Stai dalle quattro alle otto ore in bici tutti i giorni, mica scherzi!
Cazzo ma hai visto come hanno trattato i corridori della TVM al Tour de France?…Boh? A un tossico lo trattano meglio! Ma un tossico è anche socialmente pericoloso…o no?”
“Ma che ci vuoi fa’ Fabbrì. Fanno come cazzo vogliono. Che ci possiamo fare.
Ce l’hanno rovinato…Ci vediamo domani Fabbrì. Sono fuso, vado a letto, non vado neanche al pub stasera. Sono stanco morto. E domani è sabato e ci aspetta una giornata di merda. Bona Fabri’!”
“Buonanotte Rocco. A domani”.
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Città di T*** Palazzo di Giustizia
“Dunque Lei che mi dice?”
Marco lo guardò. Quell’uomo aveva qualcosa di strano. Quell’uomo gli ricordava qualcosa, qualcuno. Quell’uomo non gli piaceva. La sua voce era artefatta. Troppo melensa. I suoi occhi verdi avevano qualcosa di sinistro.
Marco era venuto lì con le migliori intenzioni. Ma l’atmosfera in quell’ufficio non gli piaceva. Meno male che con lui c’erano i due avvocati altrimenti avrebbe avuto paura.
“Io sono pulito. Non so perché mi si perseguita. Proprio non lo so! Non capisco di che mi si accusi!”
“Di illecito sportivo. Molto semplice. Lei ha fatto uso di sostanze che hanno alterato i valori in gara…”
“Hanno alterato cosa?” lo interruppe Marco “Nel ciclismo non si altera proprio nulla. Se non ti alleni non arrivi. Dopato o non dopato chi va più forte va più forte. Sempre! Con il doping o senza doping. Io non avevo bisogno di doping. Andavo forte. Più forte degli altri. Tutto qua!”.
Il procuratore P. sorrise appena, compiaciuto. Scoprendo dei denti candidi.
“Allora come spiega che alla Milano - Torino del 199*** Lei aveva l’ematocrito al 60%?”
“Io non spiego proprio nulla. Io mi avvalgo della facoltà di non rispondere.”
Gli avvocati assentirono.
“Bene! Allora in tal caso non credo che io e Lei abbiamo altro da dirci. Ma ci rivedremo ne stia certo. Lei ha delle colpe e noi le colpe siamo usi a farle pagare.
Io credo che Lei abbia sbagliato tutto fin dall’inizio. Avrebbe potuto essere un grande campione. Ma ha fatto un’altra scelta. Avrebbe potuto venirci incontro e NOI L’avremmo aiutata. Ma Lei crede troppo nelle sue forze. Ha mai pensato che nel mondo possono esserci forze che hanno più potere delle Sue?”
Marco non capiva che gli volesse dire. Quale fosse il messaggio. Guardò perplesso gli avvocati. E quelli fecero finta di niente.
Il procuratore gli si avvicinò. Gli venne a pochi centimetri dalla sua faccia.
“Stia attento. Lei potrebbe prendere una brutta strada. Potrebbe anche non farcela più a riprendere a correre. Stia attento. Il serpente non tentò direttamente Adamo ma lo fece attraverso Eva.
Marco provò un senso di disgusto a sentirsi il fiato del procuratore in faccia.
Sapeva di marcio. Di un marcio che lo stava attanagliando da tutte le parti ormai.
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Città di M*** carcere di SV***
B. ha capito che deve parlargli. Gli fa cenno di sì con il capo. L’altro annuisce e lo aspetta fuori della cappella del carcere.
Finita la messa B. esce e cammina a diritto, l’altro lo affianca e tutt’e due camminano spediti facendo finta di niente.
“Dimmi!” fa B. “Su chi devo puntare?”
“B., lo sai che ti voglio bene. Senza di te qui dentro mi avrebbero aperto un culo così!” e fece il gesto con le mani “In tutti i sensi. Tu mi hai sempre protetto. Tu mi hai sempre voluto bene. Io ho un grosso debito con te. Tu sei un bravo ragazzo che merita tutto il mio rispetto non fosse altro che per il mare di galera che ti sei puppato. Quindi, vorrei farti un regalo… Se hai qualche milioncino da impegnare giocalo sul Giro d’Italia. Puntalo su Gotti, Jalabert o chi meglio credi. Non so dirti con certezza chi vincerà, ma certo non sarà il Pelato. Ho appena saputo che al Pelato andrà male. E tanto più forte pedalerà in questi giorni, tanto più potrai prendere scommettendo su un altro…”
“Ma chi vuoi prendere per il culo! Io l’ho visto quello lì l’altro giorno quando gli è saltata la catena …quello… l’unico modo per fermarlo è sparargli!”
“B. ma come cazzo puoi pensare che io ti prendo per il culo? Qui lo sanno tutti chi sei! Se io ti facessi uno sgarro…se tu ci rimettessi qualche milione…so bene come mi andrebbe a finire. Se ti do una dritta vuol dire che la dritta c’è. Lo sai com’è radio-carcere. Quando c’è la dritta vuol dire che la dritta c’è!”
B. lo guardò dritto negli occhi. A B. non si poteva mentire. L’ultimo che gli aveva mentito l’avevano trovato con le budella in mano.
Che fosse vero? Ma chi poteva aver fatto tanto?
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Ginevra
Marco in quei giorni si allenava in Toscana da solo, come sempre. Si allenava dalle parti di Grosseto.
Si era spinto verso S. perché aveva sentito parlare di una strega.
Una strega atipica. Una strega che gestiva un ristorante. Ma pur sempre una strega.
Marco anche lui era un atipico, soprattutto per quel mondo bigotto che era il ciclismo.
Che un po’ aveva contribuito a svecchiarlo. Ma a quanto pare gliel’avevano fatta pagare.
Aveva sofferto molto. Ma finalmente ora gli pareva di aver imboccato la strada giusta. Finalmente aveva ripreso la bicicletta e si allenava.
Aveva sentito tanto parlare di quella strega, in quei giorni che si allenava sulla costa della Maremma.
La voleva conoscere.
E se Marco diceva di fare una cosa non c’era niente da fare. Si doveva farla.
Dunque c’era una volta in un piccolo paese della Maremma una strega.
A differenza di tutte le altre streghe lei era una bella donna, la cui bellezza dei quaranta l’aveva resa ancor più affascinante e intrigante. Abitava in una casa colonica della sperduta Maremma in un paesino il cui nome comincia per S.
La casa non era grande. Come tutte le case delle streghe il tetto era pieno di buchi. Il comignolo era storto e sul punto di crollare giù. Le persiane sgangherate.
E sul davanti, a destra della vecchia aia, v’era l’immancabile forno occultato alla vista da alti cipressi. Non vi cuoceva bambini, diciamolo subito. Non era quel tipo di strega. Lei era una strega speciale. Una strega che non sapeva di strega.
Non preparava pozioni o filtri magici, ma fantastici piatti.
Come tutte le streghe viveva da sola, in compagnia di un merlo. Un merlo parlante, naturalmente.
La cosa straordinaria del merlo era che il merlo, oltre a saper dire “Buongiorno”, “Buonasera”, “Buonanotte”, “Come stai?”, “Come ti chiami?” come si conviene ad un merlo parlante, era il depositario dei segreti culinari della bella strega.
Il merlo passava ventiquattrore su ventiquattro in compagnia della strega. Le stava sempre su di una spalla durante il giorno e le dormiva appollaiato sul bandone del letto la notte. Per cui, siccome Ginevra amava ripetere a voce alta gli ingredienti delle sue ricette e declamava ogni atto della sua preparazione nell’atto stesso, Abramo (il merlo) aveva imparato tutto a memoria. E se a Ginevra capitava, qualche rara volta, di dimenticare un ingrediente o saltava un passaggio nella preparazione, subito gracchiava: “Rafano!!!, Rafano!!!, Rafano!!!” oppure “Lasciare depositare cinque minuti!!! Lasciare depositare cinque minuti!!! Lasciare depositare cinque minuti!!!”
Ma anche se tutti preferivano pensare che fosse più cuoca che strega lei una strega lo era, eccome. A tutti gli effetti.
Marco arrivò davanti l’aia verso le una. Non c’erano macchine. Ancora non era iniziata la stagione. E poi era un lunedì.
Appoggiò la bicicletta alla parete vicino la porta d’ingresso.
Entrò.
Dentro era piuttosto buio. Non c’era neanche un cliente. Sui tavoli dei lumini accesi davano un’atmosfera surreale.
“Oh che onore! Abbiamo il ciclista più famoso del mondo!” sentì una voce calda sensuale alle sue spalle. Marco si voltò trasalendo.
Dio quant’è bella!
“Vuoi davvero mangiare mio bel ciclista?”
“Sì certo. Ho fatto un bel po’ di chilometri per arrivare qui. E un po’ di fame ce l’avrei!”
“Bene siediti. Ci penso io. Io lo so che ti piace. A me i miei clienti basta vederli un attimo e già li ho capiti!”
Gli occhi di Marco incontrarono quelli di Abramo.
“Vuole mangiare! Ha fame! Ha fame il ciclista più famoso del mondo!” gracchiò Abramo
“Ehi ma parla!” disse Marco
“Ma parla! Ma parla! Ma parla…”
Marco scoppiò in una risata, ridendo come da tempo ormai non rideva più.
“Tu vivi in un mondo difficile”, gli disse quand’ebbe finito di mangiare “E hai bisogno di aiuto. Hai bisogno di qualcuno che ti spieghi quello che ti sta succedendo. Vero?”
“Vero! Io non ci capisco più nulla. Tutti ora ce l’hanno con me. Io sono diventato il capro espiatorio. Ma io ho fatto solo quello che hanno fatto tutti. Questo è un mondo schifoso. C’è una facciata. Ma poi c’è come unaltro mondo parallelo. Un mondo che non si vede ma c’è. E che tutti sanno che esiste. Ma tutti fanno finta di non sapere. Come quel grassone di Immacolato Incannato che scrive su quel maledetto giornale viola. Ma tu l’hai mai visto quando arriva alle corse. Arriva con i suoi novanta chili di peso. Arriva in macchina, circondato da un codazzo di scagnozzi…e poi oggi ti osanna…e il giorno dopo, se le cose non girano come dovrebbero girare ti pugnala alle spalle…ma ti sembra giusto?”
“Ma questa è la vita Marco. E’ la vita di tutti i giorni…”
“E poi ho strane visioni…”
“Lo so Marco”
“Lo sai?”
“Vedi Marco non c’è un altro mondo. Ci sono tanti mondi. Ma il più potente è quello di sotto. E quello non ti ama. Vedi, ancora tu non sei crollato…e sai perché?”
“Perché?”
“Perché vicino a te c’è qualcuno che ti vuole bene e ti sta vicino. E finché ce la farà a starti vicino tu non crollerai. Ma stai attento Marco. Stai attento perché qualcuno ne è geloso e farà di tutto per allontanarlo da te.”
“Chi?”
“La ragazza bionda!”
“No. Ti sbagli. Lei mi ama.”
“No Marco…lei non ti ama. Ti sfrutta. Lei non è l’angelo che pensi. Lei è stata mandata per tirarti giù. Laddove ha fallito il diavolo potrà il serpente. Il serpente cambia pelle ma non natura.”
“E come farà?”
“Nel tuo corpo Marco c’è una mappa. E’ come se ci fosse scritto in che modo si entra e in che modo si esce. E il Male ha già capito la strada. E tu gli hai aperto quella strada! Tanti anni fa, senza saperlo. Di lì il Male salirà su e stenderà il suo cancro. Non credere alle parole della bionda: lei ti dirà no ma sarà sì; ti dirà sì ma sarà no. E ti spingerà a non chiudere più quella porta che il male si è già aperto dentro di te. E tu l’aprirai, la spalancherai e allora sarà la rovina tua, e di quelli che hanno creduto in te! Non ascoltare le parole della bionda!”
-
Marco incontra il Demonio?
Marco quando stava male andava sempre a passeggiare in un giardino vicino casa sua. A lui piaceva andare lì perché c’era un laghetto. Si sedeva, chiudeva gli occhi e si rilassava…dimenticando tutto.
Quella sera era tardi, e già abbuiava. S’inoltrò nel boschetto.
A quell’ora cominciavano strani movimenti. Si vedevano uomini entrare e uscire da dietro cespugli. Si vedevano dei tizi in disparte accendersi una sigaretta e aspettare.
Ma lui nessuno l’avrebbe mai disturbato. Tutti lo conoscevano e lo lasciavano in pace. Era troppo noto per provarci. E poi tutti lì gli volevano bene. Nessuno l’avrebbe importunato.
Si sentiva tranquillo lì.
Si sedette su un muretto in riva del lago con le gambe penzoloni.
Guardava l’acqua ma con la mente era lontano.
Sentì un tonfo. Distrattamente rivolse gli occhi verso quel punto. Forse un pesce.
Guardò lontano in direzione del mare. Oltre i pini era tutto rosso. Una palla di fuoco stava calandosi giù nel mare.
Di nuovo un tonfo.
Che sarà?
Nell’aria si sentiva un odore forte di acqua marcia, come l’acqua che ristagna nei canali e nei porti e marcisce sotto il sole cocente.
Marco cominciò a sentirsi come osservato. Gli pareva che da sotto l’acqua qualcosa lo stesse osservando.
Come si può descrivere un presentimento?
Ma c’era un presentimento. Il presentimento che qualcosa stesse per uscire proprio da quell’acqua marcia.
Non si sentiva più un rumore. Né si vedevano più quegli strani movimenti di prima.
Tutto taceva.
Solo il presentimento che qualcosa stesse da un momento all’altro per uscire dall’acqua.
Cominciò a dolergli quella cicatrice che si era fatta quel maledetto giorno che aveva tirato un pugno in un vetro e si era profondamente lacerato le carni dell’avambraccio destro.
La cicatrice gli faceva davvero male. Quasi gli bruciava.
Ciò lo inquietò ancor di più. Allora si alzò per andarsene.
Non capiva che stesse per succedere. Sapeva solo che voleva, doveva andarsene subito di lì.
Saltò giù dal muretto.
Qualcosa stava per succedere.
Scese dal muretto e…
“Ciao Marco”
Marco sgranò gli occhi impietrito.
“Mi riconosci”
Sì era proprio lui. Come avrebbe potuto non riconoscerlo. Come avrebbe potuto dimenticare quegli occhi sbarrati, che gli urlavano davanti
“La riconosci? La riconosci? E’ la tua provetta vero?”
Come avrebbe potuto dimenticare quel giorno in cui tutta la sua vita era cambiata!
Ora gli stava lì davanti e di nuovo gli sbarrava il cammino. Come quella mattina a Madonna di Campiglio.
“Pensavi che non mi avresti più rivisto?”
Come avrebbe voluto non rivederlo più quell’incubo!
Ma ora era lì di nuovo. Con quella faccia bianca come il ventre di una trota.
Alto quasi due metri gli stava lì davanti tutto sporco, coperto di fango e di erba del fondo del lago.
“Io sono qui per aiutarti, non per farti del male! Noi non vogliamo più farti del male. Abbiamo avuto quello che volevamo. Lui non è più vicino a te. La donna bionda è riuscita dove noi non siamo riusciti”
Marco sentì il suo cuore diventar piccolo come una noce.
Si sentì un verme. Un verme schifoso. Un vigliacco.
Abbassò il capo.
“Guarda Marco questo è per te. E’ un regalo. Prendilo. Lì dentro c’è una cosa che ti aiuterà. Tu prendila e la tua vita diventerà un paradiso. Prendila con la donna bionda. E sarete felici. Sarete sempre felici.”
Ma lei se n’è andata. Non vuole più stare con me.
“Tu chiamala. Lei ritornerà. Lì dentro c’è una cosa che ha un grande potere. Anche lei non saprà resistere al suo potere. Prendila!”
Marco allungò la mano.
-
Tour de France 2000, Mont Ventoux
Ce l’ha lì davanti. Lo guarda da dietro.
Com’è possibile che uno scenda all’inferno e poi risalga?
L’inferno rigenera?
Potevo accettare anch’io quel giorno ad Agrigento?
Potevo scendere anch’io all’inferno e risalire?
Ma l’inferno mi ha buttato giù…
L’americano allunga. Il gruppetto si assottiglia. Marco sente che le gambe tengono. Prende fiducia.
L’americano allunga ancora e stavolta fa male. Vede Ullrich alzarsi sui pedali, cosa strana per lui. Vede la smorfia di dolore di Virenque.
Ma tengono. Anche Marco tiene.
L’americano pedala su con un’andatura indemoniata.
Gli altri soffrono ma tengono.
Marco sente che quell’andatura non è più sostenibile.
Perché deve sempre vincere il male?
Perché il male sembra sempre più forte del bene?
O salto io…o saltano loro!
Nonno ci sei?
Marco comincia a perdere terreno.
Da dietro vede i culi di Virenque e Ullrich allontanarsi.
Quello è il momento più brutto per un ciclista: quando pedali e vedi gli altri che si allontanano da te e vanno via su, sempre più su.
O salto io o saltano loro!
Nonno ci sei?
Stringe i denti. Sbuffa. Si alza sui pedali. Stringe i denti.
Si alza ancora sui pedali.
E’ un boato.
Gente che gli corre di lato. Gli urla in faccia e non capisce cosa.
Vede le loro facce urlargli, alitargli sul volto.
Gli urlano. Ma che gli urlano?
Ti urlano il loro amore Marco!
Marco riconosce quella voce.
Allora ci sei! Allora ci sei!
Allora io non salto, saltano loro!
Si alza ancora sui pedali.
Intorno è un nugolo di moto, di flash, di telecamere. Un inferno di gente che urla, salta. Gli dà pacche sulle spalle. Lo spingono, lo spingono con il loro amore!
Uno gli corre davanti con uno striscione: We want Pantani back!
Pantani is back!
Ormai ha ripreso il gruppetto. Li passa e si mette in testa.
Vede la faccia sofferente di Ullrich. Vede quella di Virenque che è una maschera di dolore.
Vede l’americano sorpreso.
Pantani is back!
L’inferno questa volta non ce la farà.
Imprime delle accelerate spaventose. Terribili. Micidiali.
Si volta e vede Ullrich che arranca a trenta metri. Virenque ormai lontano.
L’americano gli sta sulla ruota, ma è una sfinge.
Marco sente la gamba che gira. Si alza e questa volta la rasoiata è tremenda. L’americano vacilla. Tentenna. Arranca. Ha subìto. Comincia a perdere terreno. Si stacca.
Marco si volta. E’ sicuro di staccarlo.
Non crede ai suoi occhi:
c’è qualcosa dietro la schiena dell’americano. Qualcosa si trasforma nell’americano.
Sente di nuovo quell’odore di marcio che lo perseguita da quel giorno.
E’ una cosa informe. Nera. Che avvolge il corpo dell’americano e sembra proteggerlo. E’ come un mostro che gli nasca di dentro. Che provenga da dentro, che gli fuoriesca dal sudore, dalla pelle, dalla carne…dall’anima.
Oggi il male non vincerà Marco. Oggi vincerai tu!
Oggi sono troppo pulito perché tu possa vincere maledetta bestia!
-
Un’e-mail
Ogni tanto Marco quando tornava dagli allenamenti dava un’occhiata al suo sito.
Tra le tante email che aveva ricevuto lo colpì quella di un ragazzo di Firenze: Rocco.
Io faccio il cameriere Marco. Lavoro dodici/quindici ore al giorno qualche volta. Non ce la faccio più ad andare avanti col mio lavoro. Io ti ringrazio per quelle vittorie al Tour de France. Hanno ridato luce, senso alla mia vita. Tu sei stato un raggio di sole nel mezzo della mia vita buia. Tu devi continuare a vincere. A vincere per me, per la gente come me, che hanno il coraggio di alzarsi la mattina e fare una vita che non gli appartiene più. Che vivono nel buio di un mondo che non è più il loro.
Non scomparire Marco. Fallo per me…per noi che crediamo in te.
Marco pianse. E tra le lacrime gli rispose.
Caro Rocco le tue parole sono bellissime. Ma io non me le merito. Voi vedete un mito in me. Ma io so di vivere sopra un profondo baratro. Io dovrei scendere in quel baratro. Dovrei andare là sotto. Affrontare quei demoni che si sono impossessati della mia vita. Dovrei andare lì e ucciderli. Allora potrei guardare in faccia te, e quelli come te che continuate a credere in un mito che loro hanno distrutto.
Ma ti sembra giusto che ci abbiano spiato, ci abbiano filmato, nudi, nelle nostre camere d’albergo. Ma perché?
Qualche volta ho la sensazione che il male mi stia divorando. Qualcosa mi brucia dentro e non so che sia.
A Cuba ho incontrato un coreano che mi ha detto che tutto nel mondo è una condizione del cuore.
Io non capivo e allora mi ha raccontato una storia di un monaco buddista, Samyong De Sa, vissuto 500 anni fa.
Lui organizzava la resistenza contro le incursioni giapponesi. E addestrava i monaci alle arti marziali. Quando fu catturato dai giapponesi fu chiuso, vivo, in un forno.
Si accese il fuoco. Si aspettò. Alla fine, si aprì di nuovo il forno, per prenderne i resti carbonizzati. Ma quando si aprì il forno trovarono Samyong De Sa completamente congelato. E ai suoi carnefici, aprendo gli occhi, disse: “Perché in questo luogo è così freddo?”
“Vedi” mi ha detto raccontandomi questo aneddoto ” tutto è una condizione di cuore. Una volta fu trovato uno morto congelato in una cella frigorifera. Ma perché era morto congelato? Per una condizione del cuore.
Si scoprì infatti che la spina della cella era staccata, e dentro la cella c’erano sì e no 16 gradi. Ma lui si era convinto di dover morire, perché uno che rimane chiuso in una cella frigorifera non può che morire congelato.”
Il cuore mi è stato strappato Rocco, e io farò come quello che è morto nella cella frigorifera. Qualcuno ha strappato il mio cuore e se l’è mangiato.
Qualcuno che è entrato profondamente dentro di me, un po’ per volta. E io non so perché. Ho solo fatto quello che sapevo fare. Ho sbagliato e non ho saputo reagire ai miei errori.
Un giorno qualcuno mi ha regalato della polvere bianca e da quel giorno non ho più avuto il cuore.
Ora è troppo tardi Rocco.
Tu non fare i miei errori. Io non sono il mito che tu vedi.
Il mito lo hanno distrutto.
-
La fine
Ormai il Male lo aveva completamente divorato. Aveva interamente devastato il suo corpo.
Se ne stava sdraiato sul letto respirando a fatica.
Da cinque giorni era chiuso lì in quella camera. Disteso sul letto.
Le sue gambe non ce la facevano più a camminare e la sua mente era incapace di pensare.
Gli venne in mente Ginevra.
Com’era bella quel giorno che l’ho incontrata.
Perché non ho ascoltato le sue parole?
Chiuse gli occhi. Respirò profondamente. C’era ora un profumo diverso nella stanza. Non era più quell’odore di fetido, di marcio, che ormai da anni lo soffocava e con cui quotidianamente conviveva dopo quel maledetto giorno a Madonna di Campiglio.
Era un odore buono. Di pelle fresca. Morbida. Come i seni di una madre.
Di un alito caldo che gli respirava accanto.
Aprì gli occhi.
Ginevra! Sei qui!
Anche tu Abramo! Ci sei anche tu Abramo!
“Sei contento di vedermi Marco?”
Sì Ginevra. Tu sei stata l’unica buona con me, in questi ultimi anni.
L’unica che mi ha detto quello che avrei veramente dovuto fare.
Purtroppo non ti ho ascoltato. Ora è un po’ tardi. No?
Mi dispiace…ti ho deluso…
“Ormai non conta più Marco. Quello che è stato è stato. Riposati Marco.
Chiudi gli occhi ora. Dormi.
Io starò qui vicino a te. Non ti lascerò più. Dormi Marco! Dormi…”
E Marco chiuse gli occhi. E vide un campo, sotto il sole cocente di un agosto torrido.
L’estate più calda che avesse visto. Ma non sapeva dove andare.
Un po’ d’ombra. Ho bisogno di un po’ d’ombra. Ho bisogno di sdraiarmi due minuti all’ombra. Non sopporto più questo caldo.
Si voltò a sinistra. In cima a un monte vide una querce. Alta. Enorme. Ai suoi piedi un’ombra fresca.
Prese allora la bicicletta e pedalò fino ai piedi del monte. Guardò su in alto. La salita era ripida, scoscesa. Sorrise. Sentì forza nelle gambe, come quel giorno all’Alpe d’Huez.
Attaccò la salita. L’attaccò fortissimo, in modo violento. Alla Pantani. A scatti. Scattava e rilanciava l’andatura. Scattava e rilanciava l’andatura.
Uno scatto. Poi un altro. Un altro ancora.
Delle rasoiate micidiali, da stroncare un toro.
Si voltò e vide il gruppo indietro, che si era staccato. Nessuno aveva retto alle sue accelerazioni, improvvise e violente.
Scattò. Scattò ancora. Scattò. Scattò senza fine…
Si voltò e vide il gruppo giù in basso. Un piccolo puntino colorato che arrancava, quattro cinque tornanti più sotto.
Era felice. Nessuno poteva resistergli. Quando lui decideva di andare via nulla e nessuno poteva stargli sulla ruota.
Arrivò in cima alla collina.
Solo.
Un profondo silenzio e un alito di vento.
Posò la bicicletta e andò verso l’ombra.
Era tutto sudato, e sotto quell’ombra si sentì meglio.
Sì adesso riposo un po’. Ho tanto di quel vantaggio che posso riposarmi almeno cinque minuti.
Si distese. Appoggiò la testa sull’erba verde e sentì un gran sollievo. Chiuse gli occhi e incrociò le mani sul petto.
Mo’ sto bene…nonno!
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