Il padre e lo straniero
REGIA: Ricky Tognazzi
ATTORI:
GENERE: Drammatico
DURATA: 110 min
Diego (Alessandro Gassman) e Walid (Amr Waked), l’amicizia fra due uomini e una confusa storia di terrorismo (?) internazionale. Questo è il succo del film.
I due uomini si incontrano, a Roma, in un istituto per bambini minorati. Tutt’ e due i padri hanno un figlio minorato. Sembra un incontro banale e piuttosto scocciante per Diego, che non ama suo figlio, Giacomo, o almeno non lo ama come lo ama la moglie, con la quale a causa di questo ha ormai rapporti difficili.
Walid invece ama suo figlio come una madre e più di una madre. E insegnerà a Diego ad amare suo figlio Giacomo in modo straordinario.
La loro amicizia è quella fra due uomini maschi. E’ un’amicizia soprattutto dominata dal fascino di Walid, lo straniero. E’ uno che viene dalla Siria e che parla sentenzioso. Ha un fascino misterioso e losco talora. Il fascino dell’ arabo infido, sebbene sempre gentile.
Diego ne resta incantato e lo segue dappertutto. Per una Roma che sembra trasformata in Damasco e fino a Damasco a bordo di un aereo militare che pare appartenere al ricco Walid.
Walid talora riveste la figura dell’angelo annunciatore (ma annunciatore di che? della pace che manca a Diego con la sua compagna? o della sua incapacità di amare suo figlio Giacomo?). Talora invece Walid sembra un Lucifero caduto, in una trama internazionale di servizi segreti (molto scadente questa parte del film) che parrebbe aver approfittato dell’amicizia di Diego per le sue trame terroristiche.
Certe volte il film assume il ruolo di una propedeutica alla bellezza del mondo orientale (arabo) quasi fosse la unica possibilità di salvazione per la civiltà caotica e nevrotica italiana.
E’ un film che risente sicuramente dell’influsso di Ferzan Ozpetek (Il bagno turco – Hamam/La finestra di fronte), molto manierato, con ripetute ed insistite oleografie e con un mistero (alla “Finestra di fronte”) che alla fine non porta da nessuna parte.
Ancora una volta la preoccupazione dello stile supera quella della narrazione. Non si riesce a fare narrazione senza gli scrupoli del bello stile (fin troppo ricercato).
Si ritorna di nuovo alla radice del problema: il cinema italiano si rende conto di essere indietro rispetto al cinema internazionale e cerca allora di fare un cinema mainstream ma con tutta la buona volontà e buoni spunti ( e questo film di buoni spunti ne ha) non riesce a fare un buon prodotto.
[Vorrei azzardare un’ipotesi: la mia sensazione è che chi produce/dirige film o non ha una preparazione culturale che lo porti molto al di là della media o non vi è la sapienza e la scaltrezza di ricerca (di marketing) su come vada prodotto un film mainstream o tutt’ e due]
Il finale è abbastanza banale e perciò contraddice la legge di Charlie Kaufman (che un grande finale salva un film).
Comunque, come dice il mio amico Matteo Patrone, “un passaggio in sala lo vale”. E se ha un merito il film di Tognazzi è quello di credere nella dialettica fra Occidente ed Oriente. Un’urgenza che è più che mai divenuta impellente ora, con le recenti rivolte nei paesi arabi, da parte di giovani che chiedono pane, lavoro, dignità, giustizia e rispetto per la vita umana e non vogliono più tirannidi e sfruttamento.
Tre stelle.
"Solo le montagne non si incontrano mai" (Walid dixit!)
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