Prologo
Che stronzata è la vita.
Quando sei giovane credi che sarà per sempre così. Ti senti
immortale (e forse lo sei) e credi che sarà sempre così. Che non cambierà mai.
Che rimarrai giovane per sempre. Che potrai fare sempre le stesse cose. Che la
malattia e la vecchiaia non ti riguardino né ora né mai.
E invece arrivi a cinquant’anni e capisci che ti hanno
fregato.
Chi?
Dio? I preti che ti hanno illuso? Le ideologie?
Ti verrebbe da dire che ti sei fregato da solo ma non è
così.
Credi di volta in volta a quello che detta lo Spirito del
Tempo. E così di volta in volta hai sempre un obiettivo da inseguire.
L’obiettivo che i tempi ti insegnano e che cambia con il cambiare delle
Stagioni.
Cambiano molte cose. Cambiano gli amici. Cambiano i fratelli.
Cambiano le mogli. Cambiano le compagne.
Cambia il lavoro. Cambia la situazione economica. Cambia
tutto.
Anch’io cambiai, fino a diventare irriconoscibile.
Solo Matilde dal 2003 era sempre lì. Immutabile nella sua
amicizia. Nel suo rispetto. Nella sua presenza costante ed invariabile. Non
cambiava mai.
Mi accompagnava dal 2003 e non cambiava.
Non abbiamo mai fatto l’amore.
Se l’avessimo fatto credo che tutto si sarebbe alterato.
E forse quella immutabilità di affetti era davvero frutto di
un atto di castità.
Ma non c’era solo Matilde in quei giorni in cui inizia il
ricordo di questa storia. C’era anche Nicole lontana e sempre in fuga da un
paese all’altro. Certe volte mi mancava, per il solo fatto che fosse lontana.
Nicole era una delle poche donne in gamba che avevo
incontrato. Era forse l’unica grande donna che avevo incontrato.
Matilde era l’opposto.
Mai in fuga. Affrontava la vita in modo stanziale, senza
spostarsi.
Nicole rappresentava per me ciò che avrei voluto essere e
non ero: un uomo senza radici e patria che fuggiva in continuazione di paese in
paese per non perire. Sempre unterwegs.
Fermarsi per me equivaleva alla morte. Ero convinto che chi era perennemente unterwegs si mantenesse sul filo
dell’immortalità e della gioventù.
Ripensando a quei giorni ora capisco come la vita fosse
fatta in verità solo di odori e sapori. Di emozioni. Gioie e paure. Di carne
soprattutto.
La filosofia, le logiche, i grandi valori sarebbero passati
ma la carne ed il sangue sarebbero state le costanti dell’esistenza per cui e
con cui vivere nel mondo.
I valori avrebbero anche potuto fregarmi ma la carne no, era
la mia compagna dall’inizio alla fine.
Che giorno
era stato quel giorno? Mi domandavo alla
fine di ogni giorno.
Un nulla
assoluto.
Uno zero
totale. Una vita senza salite e discese. Tutta pianura. Noiosa pianura.
Nei giorni di quel nulla, fatti di flash e di apparizioni,
in un pomeriggio di luglio che mozzava il respiro tanto era caldo incontrai, come due palle del biliardo che si cozzano per
poi allontanarsi in direzioni opposte, una meravigliosa creatura: Anais .
La incontrai al caffè Floriàn di via del Parione.
Era lì accanto a me. Bella, mora, dall’aria algerina. Uno
spettacolo della natura.
Non potei resisterle.
-
Assomigli molto ad una mia amica su Facebook: Arabel.
Non è che sei tu?
-
Di tutte le scuse che ho sentito per attaccar discorso
con me questa è la più assurda senz’altro – mi rispose con un forte accento
inglese. Ma non lo disse con cattiveria.
Lo disse sorridendo.
-
Posso offrirti dei cioccolatini? Le avevo risposto rincuorato dal suo sorriso
– Qui hanno dei cioccolatini al riso soffiato e pistacchio buonissimi: li
chiamano Cri-Cri
-
Adoro il nome.
Sembra quello di un grillo. Sì, li accetto volentieri.
Il cameriere ne portò
un piattino. Anais volle anche un cappuccino.
-
Che fai qui a Firenze? – Le chiesi mentre assaggiavamo
i cioccolatini
-
Faccio il Polimoda
-
Fashion design?
-
No, marketing. E poi canto
-
Canti? Non ci credo…
-
Beh ti faccio vedere
Tirò fuori il suo android ed andò su You Tube. Al caffè
Floriàn la connessione era buona. In pochissimo tempo scaricò il video.
Era proprio lei.
La canzone aveva un titolo piuttosto diretto: Who the fuck do you think you are?
Però cantava bene ed aveva una bella voce anche se rauca
alla Tom Waits. Cantava in coppia con uno dalla voce negra ma che in realtà era
italiano, mi aveva detto lei, dalle parti di Milano: Bobby the Loner. Non avevo
mai sentito quel nome.
-
Se ti va male il marketing hai sempre un’alternativa –
le dissi – Canti bene. Sei brava
-
Grazie
Poi ci lasciammo. Ci scambiammo i numeri di telefono
ripromettendoci di vedersi per un aperitivo una di quelle sere. Ma già sapevo
che non ci sarei andato…non stavo ancora bene fisicamente. Avevo ancora paura
ad uscire di casa la sera.
Bella Anais. Bellissima. Una botta di vita. Troppo bella per me. Troppo
di tutto…di tutto quello che non potevo, appunto. Ancora troppe paure ad uscire
la sera. Ancora problemi allo stomaco che non mi permettevano una vita normale.
-
Sei favoloso – mi aveva detto Anais quando mi aveva
lasciato.
Erano anni che una donna non mi faceva complimenti .
Che stessi migliorando? Un po’ ero dimagrito e mi sentivo
meglio…forse avevo acquistato anche un aspetto migliore.
Le malattie lasciano segni profondi. Difficili da cancellare.
The world forgetting
by the world forgot
Il giorno dopo era domenica..
Erano giorni di solitudine terribile. Di grande sofferenza.
Forse non i peggiori, perché quelli li avevo lasciati alle spalle.
La mia mente aveva costruito nel tempo dei filtri selettivi
ed eliminava automaticamente tutto ciò che maggiormente la disturbava e le
creava sofferenza.
Ci ero riuscito senza ricorrere a farmaci o trattamenti
psicoterapeutici invasivi. Avveniva tutto in modo naturale e di per sé. Avevo
isolato il dolore e lo avevo eliminato dalla mente.
Erano giorni di un caldo insopportabile. Di un’afa
opprimente. Un’estate terribilmente calda. Che mai cessava e toglieva il
respiro e la voglia di vivere. Si sudava anche solo stando seduti in un caffè
con l’aria condizionata. Dopo un po’ il corpo si abituava e non sentiva più il
fresco.
Se non avessi avuto Matilde quella domenica pomeriggio, mi
sarei suicidato.
Andavo spesso a trovarla nella sua casa arredata in modo
barocco in quel paese della provincia di Pisa. Il Paese delle Fate e degli Gnomi, come
lo chiamavo io.
Parlavamo più o meno sempre delle stesse cose.
Lei in compenso, ultimamente, aveva smesso di lamentarsi.
Avevo comprato, come tutte le domeniche, “Il Sole 24 Ore” (ancora mi ostinavo a
leggere i giornali in cerca di non so quale verità).
Mi ero seduto ad un caffè sulla terrazza di un centro
commerciale.
Avevo letto il solito articolo di Guido Rossi, di tutte le domeniche.
I mercati- diceva –
si insinuano nei sistemi operativi delle democrazie e in quelli dei loro
governi come virus in sistemi operativi dei computer: come potenti stuxnet…inquietante e colpita da virus
sembra la decisione del governo italiano di aver scelto la famigerata Goldman
Sachs quale advisor sia per la cessione di Fintecna, sia a fianco della Cassa
Depositi e Prestiti nello scorporo Snam, e in molte altre occasioni…
Le falsità e le ingiustizie formavano le direzioni del
mondo, non le verità. Da sempre.
Ripensai alla storia dei Protocolli dei Savi di Sion.
Era una falsità storica e tuttavia aveva colto una verità;
che alla base della direzione del mondo stavano gli imput che dava la finanza
mondiale. loro creavano e distruggevano il mondo a loro piacimento.
Mi ricordai che un giornale autorevole aveva infatti scritto
che l’ 8 febbraio del 2008 al Manhattan Townhouse, Crespi, Hardt & Co, si
era tenuta una cena di vari personaggi ben noti della finanza mondiale per
congiurare contro l’euro a favore del dollaro.
Nell’articolo si diceva anche che l’ acronimo Pigs fosse dovuto ad una
campagna denigratoria partorita dalla Goldman Sachs…
Uno dei personaggi più influenti della finanza, George Soros che con le sue speculazioni nel ’92 aveva
piegato parte degli Stati di Europa, veniva da una famiglia ebrea, che aveva subito
le persecuzioni naziste. Eppure gente
come lui avevano di nuovo generato un olocausto di intere generazioni di
giovani in Europa.
Quei giovani sarebbero stati privati non solo del lavoro ma
anche della speranza di vivere. Dei loro sogni persino.
Come aveva potuto farlo, lui che aveva conosciuto la barbarie nazista?
Che sangue scorreva nelle sue vene? Nelle vene di gente come
lui?
Mentre i miei pensieri si incattivivano una donna dal culo
enorme e dal ventre largo si venne a sedere accanto a me. Non l’avevo invitata.
Parlava al cellulare una lingua dell’est che non capivo e mi
fissava come se volesse invitarmi a chissà quale promessa.
La sua faccia era da troione sfatto e le sue promesse certo
non potevano interessarmi.
Ripensai all’eleganza di Anais con cui avevo trascorso il
pomeriggio del sabato e la confrontai con quel puttanone che mi si stava attaccando
alla pelle come una zecca.
Il mondo a cui appartenevo io non era lo stesso a cui apparteneva
lei.
Mi alzai. Raccolsi le mie cose e me ne andai senza un’idea
di come avrei trascorso quel pomeriggio da cani.
Avevo le lacrime agli occhi.
La solitudine è un nemico invisibile eppure crudele.
Quel pomeriggio Kami una ragazza giapponese che avevo
conosciuto un anno prima in chat su Facebook mi informò che presto sarebbe
venuta a Firenze e avrebbe voluto incontrarmi .
Fu uno spiraglio che squarciò la tenebra.
Ero stanco di stare solo.
La solitudine è orribile. Non ci può essere felicità nella solitudine.
La solitudine è orribile. Non ci può essere felicità nella solitudine.
Matilde mi aveva telefonato per dirmi che saremmo andati al
ristorante quella sera.
Sarebbe stata la prima volta dopo due anni. A causa della
malattia allo stomaco non avevo più conosciuto aperitivi né ristoranti né pizze
né viaggi.
Vivevo l’attesa come uno che stava per attraversare un campo
minato. Mi stavo lentamente riabituando a mangiare un po’ di tutto ma ogni
boccone di cibo non testato avrebbe potuto essere la mina che sarebbe esplosa.
La tensione era alta. Mi sentivo nervoso man mano che si
faceva sera e si avvicinava l’ora.
Matilde quel pomeriggio tardava. Aspettava dei clienti al
suo albergo e non poteva venire finché i clienti non fossero arrivati. Questo
le creava uno stato di ansia perché sapeva quanto stavo soffrendo per l’attesa.
Conosceva i miei problemi mi era stata accanto per tutto quel tempo.
Pensai che inviarle un sms l’avrebbe calmata.
Stai tranquilla. Non
ti preoccupare. Va tutto bene. Non c’è problema.
Mi resi conto però che il senso di quel messaggio era più calmare
me stesso che Matilde. L’angoscia per la cena al ristorante mi toglieva il
respiro e opprimeva il torace.
Cominciai ad assaporare il sapore amaro dell’attesa con un certo
gusto. Nella lentezza esasperata dell’angoscia vi trovai piacere.
-
Ho invitato anche Maurizia. Viene anche lei con suo
figlio – mi disse Matilde non appena ci incontrammo al ristorante.
-
Chi è Maurizia?
-
E’ una ragazza che viene in palestra con me. E’ separata.
E’ una bella donna…
Matilde aveva la fissa di farmi conoscere qualcuna delle sue
amiche perché finalmente avessi una donna matura accanto a me.
Ma a me piacevano le ragazzine. Le rughe mi facevano paura.
Il ristorante era a Montelupo Fiorentino. L’Osteria
Livornese. Proprio sul fiume Pesa che attraversa il centro del paese e lo
divide in due.
Eravamo sulla terrazza prospiciente al fiume. Era caldo e
dal fiume sebbene fosse in secca saliva su una brezza che rinfrescava.
Quando arrivammo al ristorante la tensione mi aveva
trasfigurato il volto. Erano quasi le otto. Non avevo mangiato da mezzogiorno.
Temevo che mi venisse una delle solite crisi di fame che sarebbe finita in tachicardie e fibrillazioni.
Quando avevo uno di quegli attacchi in presenza di estranei
era deprimente. Il mio volto cangiava. Diveniva una maschera di sudore e
sofferenza. La mia bocca si ritirava come se fosse inghiottita dallo stomaco.
Non era un bello spettacolo. Era visibile lo stato di
malessere profondo. Chi era con me mi guardava sconcertato.
Il figlio di Maurizia, Daniele, all’apparenza sembrava
timido.
-
Hai la fidanzata – gli chiesi
Si mise a ridere.
-
Sì, in un certo senso…ecco ancora non ci son proprio
fidanzato
-
Sei in trattative insomma…
-
Ecco…sì…più o meno
-
Hai una foto?
Me la fece vedere.
Era una bella ragazzina di tredici anni, come lui.
Maurizia davvero era una bella donna ma aveva pur sempre
cinquanta anni. E io con le cinquantenni non riuscivo ad esprimermi.
Non avevo la benché minima idea di che impressione le avessi
fatto. Mi auguravo solo che le fossi parso uno stronzo. Allora mi piaceva
passare per uno stronzo.
Nicole, in chat, mi diceva spesso che ero bossy and jerk , un PITA (Pain In The Ass).
Per me era un bel complimento.
-
Vuoi il numero di Maurizia? – mi chiese Matilde quando
la riaccompagnai alla macchina.
-
No, Matilde. Non ho fretta. Posso aspettare. E
poi…onestamente…di che ci parlerei con una donna così? Di figli? Di ex mariti?
Di vacanze al mare? Di appartamenti da affittare? Di andare al ristorante?...ho
più cose di cui parlare con te che con Maurizia. Non è la donna per me. Ci
potrei solo andare a letto. Scopare e
basta. Ma dovrebbe essere una cosa veloce, non ce la farei ad andare tanto per
le lunghe…
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